Il campanile spunta dal lago, inquietante e solitario. Là sotto una volta c’era un paese. È stato spostato, ricostruito negli anni Cinquanta prima che il sito originario venisse allagato per creare il lago artificiale di Resia. Siamo in Alto Adige, il posto si chiama Curon e dà il titolo all’omonima e recentissima serie Netflix: una serie tutta italiana. Sfruttando una location reale – Curon Venosta con il suo iconico campanile sta in provincia di Bolzano – gli autori Ezio Abbate, Ivano Fachin, Giovanni Galassi e Tommaso Matano hanno scritto un thriller di genere fantastico. Per una produzione italiana questo è già un evento. Dopo la gloriosa stagione degli anni Settanta con sceneggiati come Il segno del comando, a livello seriale questo genere in Italia è stato praticamente abbandonato. Lo si riscopre solo ora sotto lo stimolo delle grandi piattaforme.
Anna Raina (Valeria Bilello) torna a Curon dopo molti anni, con i due figli adolescenti Daria e Mauro (Margherita Morchio e Federico Russo). Lì vive Thomas, suo padre (Luca Lionello). Anna se ne è andata da ragazza, dopo che tragici fatti ne hanno sconvolto l’esistenza. Poco dopo la donna sparisce e tocca ai figli risolvere il mistero. Qualcosa non va in quel posto. Succedono cose strane lì. Da quel lago può emergere qualcuno – o qualcosa – che è proprio identico a te e vuole vivere la tua vita: letteralmente. Il potente tema del doppio è al centro della serie.
Da Dostoevskij a Jordan Peele, passando per Poe, Stevenson, King e mille schiere di doppelgänger, l’idea della dualità di una natura umana che si dimena tra bene e male ha affascinato autori, lettori e spettatori. Avvolta in atmosfere sovrannaturali, fra riverberi di serie come Les revenants o Dark, folklore, storie avvelenate di una piccola comunità montana isolata e dinamiche adolescenziali da teen drama, Curon mette tanta carne al fuoco.
Il risultato però concretizza solo in parte le ottime intenzioni. Si evoca molto, si sviscera poco a cominciare dai dettagli sulla maledizione del luogo. Le colpe della famiglia Raina sono accennate a mezze frasi e non spiegate come tanti altri elementi che forse saranno indagati in una seconda stagione… Si cerca la tensione con inquadrature e musica ma non c’è mai una scena capace di far saltare gli spettatori sulla sedia.
La regia di Fabio Mollo e Lyda Patitucci si perde in qualche ingenuità di troppo e la recitazione del cast – ci riferiamo agli adulti – suona poco naturale. Non sono pecche da poco, ma non spiegano la virulenta accoglienza tributata in patria a Curon da una parte della critica, perché seppur incespicante la serie è comunque un passo coraggioso in una direzione molto interessante. Alcuni giudizi netti sembrano voler spaccare il capello in quattro con un rigore che non viene applicato altrove, quasi che una serie made in Italy debba giustificarsi – a casa propria – se osa abbandonare i terreni abusati del crime, del giallo o i toni della commedia.
La reazione del pubblico è stata invece migliore e più aperta. Sarà che l’atmosfera è forte e intrigante e l’ambientazione è vincente, sarà che il genere ha i suoi estimatori ovunque. Sarà che una bella prova dei giovani attori dà corpo a personaggi dai tratti originali. Sono i ragazzi il cuore della serie. Daria e Mauro e i loro coetanei Micky e Giulio, fratello e sorella anch’essi (interpretati da Juju Di Domenico e Giulio Brizzi) hanno sfumature e incertezze, inediti rapporti gerarchici, crescono e allo spettatore importa della loro sorte. Pur con le sue ombre Curon ha anche i suoi momenti luminosi. Il campanile che spunta dal lago è davvero il simbolo della serie: se parecchio resta sommerso, quello che emerge ha la forza di farsi notare.
Fra le luci e le ombre di Curon
Il sovrannaturale made in Italy targato Netflix
/ 29.06.2020
di Fabrizio Coli
di Fabrizio Coli