«I tre anni ad Ascona furono i più interessanti della mia vita, poiché la natura lì è così rigogliosa e misteriosa da costringerti a vivere con essa, offrendoti una meravigliosa armonia di giorno e qualcosa di molto inquietante di notte», così Alexej von Jawlensky, nelle sue memorie dettate nel 1937 alla pittrice Lisa Kümmel, parla del periodo trascorso nel piccolo borgo sulle rive del Lago Maggiore.
Sebbene sia durato solo un triennio, dal 1918 al 1921, per l’artista di origine russa, uno dei maggiori interpreti delle avanguardie del Novecento, il soggiorno ticinese rappresenta una fase fondamentale del suo percorso creativo, una parentesi particolarmente feconda che ha visto maturare sotto molti punti di vista la sua ricerca espressiva.
A condurre Jawlensky in Svizzera è lo scoppio del primo conflitto mondiale: nel 1914 il pittore è costretto ad abbandonare in fretta e furia la Germania, lasciando la propria casa e la maggior parte dei propri averi a Monaco di Baviera. Per lui, come per numerosi altri artisti e intellettuali europei nella medesima situazione, il nostro Paese si prospetta come un rifugio sicuro in un momento estremamente difficile.
Prima di approdare ad Ascona, Jawlensky si stabilisce inizialmente a Saint-Prex, nel Canton Vaud, dove ritrova alcuni dei suoi più cari amici come Ferdinand Hodler e Cuno Amiet, e di seguito, nel 1917, nella più movimentata Zurigo, dove già da un anno i dadaisti stanno stravolgendo il mondo dell’arte. Quando poi i medici gli consigliano di curare una brutta influenza con il clima più mite e gradevole del sud, il pittore si trasferisce nel nostro cantone nell’aprile del 1918, agli albori di una nuova primavera che schiude ai suoi occhi la bellezza della lussureggiante natura ticinese.
In tutte queste tappe elvetiche Jawlensky si muove in compagnia di Marianne Werefkin, pittrice russa con cui l’artista ha intrattenuto una relazione profonda e complessa durata quasi un trentennio. Al loro seguito ci sono anche Helena Nesnakomova, la cameriera-amante dell’artista, e Andreas, il figlio illegittimo avuto da lei.
Sono anni molto complicati, questi, che vedono Jawlensky, abituato insieme alla Werefkin a una vita agiata fatta di viaggi (con lei si era trasferito nel 1896 a Monaco di Baviera dove era entrato a far parte della Neue Künstlervereinigung München, associazione da cui avrebbe preso le mosse il movimento Der Blaue Reiter), confrontarsi adesso con un’esistenza caratterizzata da ristrettezze economiche oltreché da una grande apprensione per la situazione storica. Nonostante ciò Jawlensky lavora alacremente, adattandosi alle circostanze poco favorevoli con passione e con grande energia.
Una piccola ma esauriente rassegna ospitata al Museo d’arte della Svizzera italiana, nella sede espositiva del LAC, si concentra proprio sul breve ma intenso periodo trascorso dall’artista russo sulle rive del Verbano, evidenziando come in tale cornice si sia consolidato il suo linguaggio pittorico. La mostra, che raduna una ventina di dipinti provenienti da collezioni pubbliche e private, è stata allestita all’interno della presentazione delle collezioni del MASI, così da risultare come un approfondimento della recente storia delle arti visive in Ticino.
Dal nucleo di opere selezionate si evince come durante gli anni svizzeri l’arte di Jawlensky assuma delle caratteristiche nuove nella cifra stilistica, nei soggetti nonché nel modo di lavorare del pittore; elementi, questi, che influenzeranno la sua produzione anche successivamente.
Ci si accorge prima di tutto di quanto le cromie accese e i profili marcati delle tele espressioniste della fase monacense vengano rimpiazzati da tinte più tenui e dal dissolvimento dei contorni. Poi di quanto le forme si facciano sempre più semplificate, giungendo a una sintesi geometrica e a una stilizzazione che, pur non emancipandola mai completamente dalla realtà, proiettano la pittura di Jawlensky verso l’astrazione. O, ancora, di quanto le scelte tematiche vedano il lento sostituirsi dell’interesse per la natura e per il paesaggio con quello per la rappresentazione del volto umano. E, infine, di quanto il modus operandi dell’artista venga improntato al procedere per «serie aperte», ovvero a un approccio alla creazione che prevede un lavoro parallelo su più cicli, meno vincolato al singolo dipinto e orientato invece verso la ricerca del senso compiuto dell’opera nella sua percezione sequenziale. Basti pensare che ad Ascona Jawlensky porta avanti in simultanea ben quattro serie, muovendosi con estrema libertà da un tema all’altro.
Per poter meglio cogliere gli esiti raggiunti dal linguaggio artistico di Jawlensky in Ticino, nella mostra sono esposti alcuni lavori realizzati prima e dopo il soggiorno asconese, dando così la possibilità al visitatore di fare i dovuti confronti e di comprendere l’evoluzione stilistica che nel giro di pochi anni porta a maturazione l’arte del pittore russo.
È in quest’ottica che, all’inizio della rassegna di Lugano, è stata allestita una sezione con opere realizzate tra il 1908 e il 1913. Qui troviamo dipinti come Natura morta con caffettiera gialla e teiera bianca e Testa di donna del 1913 (nell’immagine) che testimoniano la forza espressiva e i colori accesi con cui Jawlensky, prima del suo trasferimento in Svizzera, dava vita a «forme che emergevano possenti da un’estasi interiore».
Con l’arrivo in terra elvetica, lo spirito dell’artista muta («Qualcosa dentro di me mi impediva di dipingere quadri colorati e sensuali», racconterà Jawlensky nelle sue memorie) e con esso cambiano anche le condizioni di lavoro. Le opere eseguite a Saint-Prex ci raccontano i problemi economici del pittore, che decide di utilizzare la carta al posto della tela, in quanto meno costosa, e che opta per formati più piccoli poiché non ha un atelier ed è costretto a dipingere su un piccolo tavolo collocato di fronte alla finestra di casa. Proprio da questa finestra Jawlensky osserva gli scorci da cui prende spunto la serie Variazioni su un tema paesaggistico, un ciclo dai colori diluiti in cui l’artista esprime ciò che la natura gli sussurra.
La figura umana ricompare quando Jawlensky si trasferisce nel 1917 a Zurigo. Vengono avviate in questo periodo le Teste Mistiche, ritratti femminili dai visi stilizzati in cui la ricerca dell’essenzialità aspira a generare una forma universale, e i Volti del Salvatore, frutto del bisogno del pittore di inserire nella propria arte una componente spirituale.
È però proprio nelle opere asconesi che la sintesi del volto raggiunge il suo apice. Nelle Teste Astratte, di cui in mostra è presentata anche la Uhrform, la forma primordiale del 1918, Jawlensky perviene a una maggiore semplificazione e a un’armonia cromatica giocata su trasparenze e sfumature. Questa serie, la più longeva della carriera dell’artista, documenta bene quanto le modalità della resa fisiognomica adottate da Jawlensky siano ormai molto lontane da quelle dei lavori eseguiti prima della Grande Guerra.
Il capitolo conclusivo del percorso di mostra è dedicato al ritorno in Germania: nel 1921 Jawlensky dice addio al borgo ticinese (e alla Werefkin) per stabilirsi a Wiesbaden, dove con Kandinskij, Klee e Feininger entra a far parte del gruppo Die Blaue Vier e dove per alcuni anni prosegue nel dipingere le sue Teste Astratte, continuando così la ricerca iniziata ad Ascona volta a dar vita a composizioni di pura forma e colore, capaci di esprimere «un contenuto spirituale perfetto».