Un’intensa immagine del grande attore inglese (Keystone)


Follie londinesi

Michael Caine ha dato la propria voce e testimonianza a My Generation, documentario sugli anni della mitica «Swinging London»
/ 19.03.2018
di Blanche Greco

«“Se attraversi l’inferno, non ti fermare, continua a camminare”, ha detto una volta Winston Churchill, e io nei tempi duri della mia gioventù, ho sempre tirato dritto, malgrado tutto. Mio padre faceva il facchino al mercato del pesce, mia madre la domestica, eravamo cockney poveri in canna, e io, a vent’anni, finito il militare, di giorno mi guadagnavo da vivere come operaio in una fabbrica di burro; di notte mi dannavo per fare l’attore, senza troppe illusioni. Poi vennero gli anni 60, l’epoca in cui i sogni potevano avverarsi», ci ha raccontato Sir Michael Caine, che abbiamo incontrato alla Mostra del Cinema di Venezia: testimonial, autore e voce fuori campo di My Generation, il documentario sull’Inghilterra degli anni 60, la cultura pop, e i cambiamenti sociali, girato da David Batty sul filo delle memorie di questo celebre attore.

Ottantaquattro anni, lo sguardo ceruleo e vellutato alla Alfie ancora intatto, Michael Caine ci ha parlato del suo passato come di uno stupefacente romanzo di avventure, con ironia e una leggera sfumatura di rabbia: «L’Inghilterra di quell’epoca era snob, classista, chiusa a livello culturale e sociale. La Radio, era solo la BBC, dove i giornalisti leggevano i notiziari in abito scuro e cravatta; e la musica pop era bandita. Per ascoltarla dovevi sintonizzarti su Radio Lussemburgo, o sui programmi della Radio delle Forze Armate americane di stanza a Berlino. Al cinema, i miei amici e io andavamo a vedere i film di guerra americani, perché i protagonisti erano soldati, mentre in quelli inglesi erano sempre storie di ufficiali, e noi non potevamo identificarci. Altrettanto succedeva per i film d’amore inglesi, che proponevano idilli di borghesi innamorati, con attori di mezza età. Agli inizi degli anni 60 Peter O’Toole divenne una star facendo il soldato cockney in uno spettacolo teatrale, poi dovendo girare un film, chiesero a me di sostituirlo e con un buon successo, ma per la versione cinematografica non chiamarono O’Toole, la star, e neppure me, che ero stato un vero soldato cockney, ma Laurence Harvey, un immigrato lituano!».

L’Inghilterra degli anni 50 emerge dalle parole di Michael Caine come un paese distrutto e in bancarotta, un «deserto», che aveva «vinto la guerra, ma non la pace»: l’Impero si stava dissolvendo; la società stava andando incontro a una grande trasformazione, ma il «sacro» sistema delle classi era intatto e teneva rigidamente «tutti al loro posto». «All’epoca quando uscivamo la sera, la scelta era, come prima della guerra, tra un pub e una friggitoria di fish and chips», continua Michael Caine, «poi qualcuno inventò i coffee bar, non era per cockney, ma per australiani all’inizio. Il caffè costava poco e c’era sempre qualcuno che cantava, così ascoltai per la prima volta Shirley Bassey, che era sul lastrico, e lì si guadagnava onorevolmente da vivere».

Lui tuttavia non si perse d’animo, e dopo aver cambiato il suo cognome in Caine e domato il suo spiccato accento cockney grazie al teatro, fece l’incontro che gli avrebbe cambiato la vita: era il 1964 e il regista americano Cy Endfield, in cerca di protagonisti per il suo colossal Zulu, lo scelse per interpretare un ufficiale britannico: «Nove anni di teatro mi avevano reso camaleontico: ero in grado di rifare qualsiasi accento alla perfezione. Ma nessun regista inglese, neppure di dichiarata fede marxista, si sarebbe mai azzardato ad affidare un ruolo simile a un figlio del popolo, un vero cockney londinese!», ricorda divertito Sir Michael Caine che due anni dopo ebbe una nuova grande occasione. «Sono un uomo molto fortunato, oltre ad essere della stessa generazione di John Osborne e Harold Pinter: sono diventato famoso con Alfie, la storia di un donnaiolo che apparteneva alla classe operaia. Nessuno aveva mai scritto, prima di allora ruoli simili, o per attori come me».

Il cambiamento in Inghilterra era in atto e dal palcoscenico londinese che si andava allargando a dismisura, emersero quei protagonisti che sarebbero diventati le icone della scena culturale e sociale internazionale, da Dame Shirley Bassey, «voce» di Goldfinger, a Sean Connery, un altro figlio del popolo a cui 007 portò fortuna, passando per Marianne Faithfull, i Beatles, Mary Quant, Twiggy e David Bowie, e Londra di colpo diventò «swinging», il centro di ogni moda, il cuore pulsante dell’arte moderna, dove tutti volevano essere la rampa di lancio verso la notorietà e l’America. La musica di quegli anni era la naturale espressione di quel rivolgimento epocale, di quell’effervescenza che accompagnava la nuova libertà. «Passammo improvvisamente dal “niente”, al “tutto”», ci ha confessato lapidario Michael Caine, «facevo provini di continuo e così conobbi David Bowie che all’epoca faceva l’attore ed era commesso in un negozio di Kings Road. Alcuni anni prima, invece avevo fatto amicizia con Sean Connery, che era nel gruppo di nerboruti di bell’aspetto che il musical americano South Pacific, in trasferta a Londra, aveva trovato nelle palestre più famose della città per una scena con delle affascinanti ballerine. Il coro inglese, non particolarmente virile, cantò nascosto dietro a quei giovanotti muscolosi, fra cui c’era anche Sean Connery, già Mister Edinburgh che si preparava al concorso di Mister Britain. La sua chiave per il mondo dello spettacolo furono i muscoli. Qualche anno dopo ci reincontrammo, in coda per il sussidio di disoccupazione, poi ci saremmo rivisti ancora».

Ma questo non c’è, non tutti i ricordi di Sir Michael Caine sono in My Generation, poiché non doveva essere un film su di lui, ma sugli anni 60: «Qualcuno doveva cominciare a raccontare ai giovani di oggi, che hanno la possibilità di vedere e ascoltare tutto ciò che vogliono», ha concluso Sir Michael Caine, «cosa abbiano rappresentato quei fantastici anni 60 a livello culturale e sociale: è stata una rivoluzione vera e propria che ha cambiato il mondo per sempre e, fortunatamente, anche il mio destino.»