Se è vero che i vari lockdown pandemici del 2020-21 sono stati difficili per tutti, è altrettanto vero che lo sono stati particolarmente per chiunque soffrisse di scompensi psicologici o problemi di salute mentale; e questo vale, naturalmente, anche per gli artisti, da sempre caratterizzabili come individui particolarmente sensibili. E pochi, in fondo, possono definirsi sensibili quanto Florence Welch, da anni anima della formazione britannica nota con il nome di Florence + The Machine e appartenente alla tradizione delle grandi muse del pop-rock, a cavallo tra Kate Bush, Patti Smith e Pat Benatar.
Ecco quindi che l’attesissimo ritorno discografico della diafana ed eterea Florence – la quale, ancora una volta, presenta al pubblico la solita, irresistibile estetica demodé, a cavallo tra art nouveau e atmosfere da pittura preraffaelita - avviene tramite un disco per molti versi esuberante quale il nuovo Dance Fever, il cui titolo non rappresenta una connotazione stilistica, bensì un riferimento al desiderio di vita notturna che le restrizioni pandemiche hanno a lungo frustrato. Non solo: con quest’album, i Florence + the Machine decidono di effettuare un vero e proprio ritorno alle atmosfere e suggestioni del periodo tra il 2009 e il 2011 – gli anni del debutto Lungs e del successivo Ceremonials, a tutt’oggi i maggiori successi della formazione.
E proprio come con i precedenti album, anche per Dance Fever la Welch va a creare una sorta di «esperienza cinematica» nella cura assoluta dedicata ai videoclip che accompagnano i singoli estratti dal CD – e che, lungi dall’essere semplici ausilii commerciali, diventano a tutti gli effetti elemento fondamentale nella fruizione del disco, fornendo un corrispettivo visivo ai brani e condendoli di interpretazioni particolarmente mirate. Un esempio perfetto è il video di Free, che vede la star del cinema britannico Bill Nighy affiancare l’artista nei panni della sua sindrome ansiosa, qui vista alla stregua di entità fisica e tangibile al fianco di una sempre più instabile Florence – la quale, da parte sua, in questi nuovi exploit appare sempre più come un’incarnazione fuori tempo massimo dell’Ofelia dipinta a metà 800 da John Everett Millais (si veda anche King, in cui l’artista si presenta nei panni di una sorta di apparizione soprannaturale, giunta ad interrogarsi sul tragico, eterno divario tra responsabilità familiari femminili e velleità artistiche).
Del resto, l’intero album è incentrato proprio sui mai risolti conflitti psicologici della cantante, ai quali ampio spazio è sempre stato dedicato nei lavori della band, sotto forma di candide e quantomeno esplicite confessioni. E nel caso di Dance Fever, l’infinito psicodramma della Welch ci regala, tra le altre, gemme assolute come il pezzo di chiusura Morning Elvis, in cui le conseguenze dell’ennesimo episodio di ubriachezza di Florence, che stavolta la portano a mancare una visita a Graceland, diventano scarna e vibrante riflessione sul disagio psichico in generale, come su qualsiasi forma di perdita del sé: «ho ancora paura, sono ancora pazza e spaventata / ma se riesco ad arrivare fino al palco, vi mostrerò cosa significa essere stati risparmiati».
Certo, tutto ciò presenta anche un altro lato, forse meno positivo, della medaglia, poiché l’unico difetto di Dance Fever sta nel fatto che vi sia poco o nulla di nuovo (o anche solo vagamente sperimentale) nella tracklist: la band sembra aver deciso di andare sul sicuro, ricalcando le sonorità del passato – una decisione che potrebbe avere qualcosa a che fare con la claustrofobica angoscia pandemica all’interno della quale il disco è stato concepito. Ma davanti all’orgogliosa, disarmante franchezza e forza espressiva della performer, viene naturale perdonare quella che potrebbe apparire come una decisione di comodo; anche perché Dance Fever può comunque definirsi come uno dei picchi finora più alti della personale espressione stilistica di Florence + The Machine – il tutto grazie a brani dalla potenza quasi epica, nei quali è evidente la volontà di ricalcare il percorso di altre iconiche performer femminili quali Stevie Nicks e Bonnie Tyler. E se tracce di spessore quali Heaven is Here, Girls Against God e Dream Girl Evil sono vere e proprie «dichiarazioni d’indipendenza» infuse di puro girl power, la medesima, disperata energia si può trovare in My Love, Daffodil e Cassandra (nuovamente incentrati su figure femminili di grande forza), nonché in The Bomb, agrodolce ritratto di una relazione terribilmente sbilanciata.
Così, nonostante la natura vagamente risaputa, Dance Fever rappresenta comunque un altro centro perfetto per Florence + The Machine: e il fatto che i fan non possano che apprezzare una volta di più l’eterna, bruciante sincerità e onestà artistica qui espresse dalla loro tormentata eroina - nonché i suoi immancabili gorgheggi, simbolo di una potenza vocale tutt’altro che sopita – promette bene per il futuro artistico della Welch e della sua formazione.