Lo storico e militare ateniese Tucidide (460 a.C.-404 a.C.)


Flagello e disperazione

Letteratura/3 - Tucidide e la peste di Atene (parte II)
/ 23.11.2020
di Elio Marinoni

Nella seconda parte della sua narrazione (capp. 51-53) Tucidide si sofferma sull’incapacità della scienza medica di escogitare una profilassi e una terapia efficaci e sulle conseguenze dell’epidemia sul piano psicologico e comportamentale.

«51.1. È questo il quadro generale e complessivo della malattia, sebbene sia stato costretto a tralasciare molti fenomeni e caratteri peculiari per cui ogni caso, anche se di poco, tendeva sempre a distinguersi dall’altro. Nessun’altra infermità di tipo comune insorse nel periodo in cui infuriava il contagio; e in esso confluiva qualunque altro sintomo si manifestasse. 2. I decessi si dovevano in parte alle cure molto precarie, ma anche un’assistenza assidua e precisa si rivelava inefficace. Non si riuscì a determinare, si può dire, neppure una sola linea terapeutica la cui applicazione risultasse universalmente positiva: un farmaco salutare in un caso, era nocivo in un altro.

3. Nessuno, di debole o vigorosa tempra, mostrò mai di possedere in sé energie bastanti a contrastare il morbo, che rapiva indifferentemente chiunque, anche quelli circondati dalle precauzioni più scrupolose. 4. Nel complesso di dolorosi particolari che caratterizzavano questo flagello, uno s’imponeva, tristissimo: lo sgomento, da cui ci si lasciava cogliere quando si faceva strada la certezza di aver contratto il contagio (la disperazione prostrava rapida lo spirito, sicché ci si esponeva molto più inermi all’attacco del morbo, con un cedimento immediato); inoltre la circostanza che, nel desiderio di scambiarsi cure ed aiuti, i rapporti reciproci si intensificavano, e la gente moriva, come le pecore. Era questa la causa della enorme mortalità.

5. Chi per paura rifiutava ogni contatto, periva solo. Famiglie al completo furono distrutte per mancanza di chi fosse disposto a curarle. Chi invece coltivava amicizie e relazioni, perdeva egualmente la vita: quelli in particolare che tendevano a far mostra di nobiltà di spirito. Per rispetto umano, si recavano in visita agli amici, disprezzando il pericolo, quando perfino gli intimi trascuravano la pratica del lamento funebre sui propri congiunti, abbattuti e vinti sotto lo schianto della calamità.

6. Una compassione più viva, su un morto o verso un malato, dimostravano quelli che ne erano scampati vivi: conoscevano di persona l’intensità del soffrire e si facevano forti d’un sentimento di sicurezza. Il male non aggrediva mai due volte: o, almeno, l’eventuale ricaduta non era letale. Erano giudicati felici dagli altri e nella eccitata commozione di un momento si abbandonavano alla speranza, illusoria e incerta, che anche in futuro nessuna malattia si sarebbe più impossessata di loro, strappandoli a questo mondo».

La prima parte del capitolo 51 (1-3) evidenzia l’incapacità della medicina di mettere a punto una terapia universalmente valida (2) ed efficaci misure profilattiche contro il contagio (3-4).

La seconda si sofferma sulle conseguenze dell’epidemia sulla psicologia di coloro che vi furono coinvolti: alla prostrazione psichica dei contagiati, che secondo l’autore ne abbassava le difese immunitarie (4), fanno da contrappunto la solidarietà sprezzante del pericolo mostrata da alcuni (5) e l’atteggiamento compassionevole dei guariti: è un concetto comune nella cultura classica la pietà, da parte di chi ha conosciuto il male, nei confronti di chi si trova nella stessa situazione: «non ignara del male» – dirà la Didone virgiliana – «ho imparato a soccorrere gli infelici». La presunzione di immortalità dei guariti era ovviamente illusoria, ma essi potevano contare su una almeno parziale immunità (6).

«52.1. L’imperversare dell’epidemia era reso più insopportabile dal continuo afflusso di contadini alla città: la prova più dolorosa colpiva gli sfollati. 2. Essi non disponevano di abitazioni adatte e vivevano in baracche soffocanti per quella stagione dell’anno: il contagio mieteva vittime con furia disordinata. I cadaveri giacevano a mucchi e tra essi, alla rinfusa, alcuni ancora in agonia. Per le strade si voltolavano strisciando uomini già prossimi a morire, disperatamente tesi alle fontane, pazzi di sete.

3. I santuari, che avevano offerto una sistemazione provvisoria, erano colmi di morti: gente spirata lì dentro, uno dopo l’altro. La violenza selvaggia del morbo aveva come spezzato i freni morali degli uomini che, preda di un destino ignoto, non si attenevano più alle leggi divine e alle norme di pietà umana. 4. Le pie usanze che fino a quell’epoca avevano regolato le esequie funebri caddero travolte in abbandono. Ciascuno seppelliva come poteva. Molti si ridussero a funerali indecorosi per la scarsità di arredi necessari, causata dal gran numero di morti che avevano già avuto in famiglia: deponevano il cadavere del proprio congiunto su falò preparati per altri e vi appiccavano la fiamma prima che i proprietari vi facessero ritorno, mentre altri gettavano sul rogo già acceso per un altro il proprio morto, allontanandosi subito.

53.1. Anche in campi diversi, l’epidemia travolse in più punti gli argini della legalità fino allora vigente nella vita civile. Si scatenarono dilagando impulsi prima a lungo repressi, alla vista di sbalzi di fortuna inaspettati e fulminei: decessi improvvisi di persone facoltose, e gente povera da sempre che ora, di colpo, si ritrovava ricca di inattese eredità. 2. Considerando ormai la vita e il denaro come valori di passaggio, si bramava un godere che s’esaurisse in fretta, in soddisfazioni rapide e concrete.

3. Nessuno si metteva di cuore a impegnare con anticipo energie in qualche impresa ritenuta degna, nel dubbio che la morte giungesse a folgorarlo, a mezzo del cammino. L’immediato piacere e qualsiasi espediente atto a procurarlo costituivano gli unici beni considerati onesti e utili. 4. Nessun freno di pietà divina o di umana regola: rispetto e sacrilegio non si distinguevano, da parte di chi assisteva al quotidiano spettacolo di una morte che colpiva senza distinzione, ciecamente. Inoltre nessuno concepiva il serio timore di arrivar vivo a rendere conto alla giustizia dei propri crimini. Avvertivano sospesa sul loro capo una condanna ben più pesante: e prima che s’abbattesse, era umano godersi un po’ della vita». (Trad. di Ezio Savino, Garzanti, Milano 1974)

Tucidide indica il sovraffollamento della città a causa dell’afflusso dal contado (52, 1-2) come aggravante che favorì il dilagare del contagio. Si sofferma poi sul gran numero di cadaveri, ammucchiati nelle strade o stipati nei santuari, che rendeva impossibile la celebrazione di regolari e decorose esequie (2-4). Questo particolare, ricordato anche da Sofocle nell’Edipo re (cfr. sopra) non può non riportare alla nostra mente le tristissime immagini dei convogli militari, carichi di vittime del Covid-19, in uscita dalla città di Bergamo pochi mesi or sono.

L’ultimo capitolo (53) espone brevemente le conseguenze dell’epidemia sul piano della morale e della legge: anche l’accenno ai repentini «sbalzi di fortuna» può essere letto in chiave di attualità: alla crisi economica generalizzata causata dalla pandemia del Covid-19 si contrappone l’incremento registrato da settori specifici come quello delle vendite online, quello dei prodotti telematici o quello di alcuni «presidi sanitari» richiesti dalla lotta alla pandemia.

A differenza di quanto avviene nei primi due testi esaminati (di Omero e di Sofocle), la descrizione tucididea della peste si mantiene su un piano puramente scientifico e umano, escludendo ogni prospettiva ultraterrena. L’idea del castigo divino, presente nei primi due testi, ritorna invece nella descrizione della peste (loimós) di Agrigento del 406 a.C. da parte dello storico di età augustea Diodoro Siculo (XIII, 86,2-3), che la interpreta appunto come punizione della sacrilega profanazione delle tombe compiuta dai soldati cartaginesi durante l’assedio.