Fiumani, un uomo senza eredi

Il cantante italiano, leader della formazione dei Diaframma, giovedì si esibirà allo Studio Foce di Lugano nell’ambito della rassegna Raclette
/ 28.11.2016
di Zeno Gabaglio

Il settimo tra i più importanti album italiani di sempre. Basterebbe questo riferimento alla celebre classifica stilata da «Rolling Stone» per soppesare l’importanza di quel Siberia che il gruppo fiorentino Diaframma licenziò nel lontano (ma musicalmente vicinissimo) 1984. 

Quell’album nel 2016 ha ripreso nuovamente vita, con una riedizione sia su disco sia dal vivo che lambirà anche la Svizzera italiana il prossimo giovedì 1. dicembre, nell’ambito del cartellone Raclette presso lo Studio Foce di Lugano, una programmazione sostenuta anche dal Percento Culturale Migros Ticino. Per avvicinare quest’occasione unica e imperdibile abbiamo qui incontrato Federico Fiumani, frontman e da sempre autentico demiurgo di ciò che Diaframma ha rappresentato.

L’iniziativa di riportare dal vivo – ma soprattutto di risuonare su disco – il vostro celebre album Siberia ha suscitato reazioni molto contrastate, tra chi vi ha letto il giusto omaggio (nonché una nuova vita) per uno dei dischi più importanti della musica italiana e chi invece ha faticato a trovare il senso di questa nuova ri-produzione, con un approccio e dei criteri oggi conosciuti forse solo nelle musiche classiche. Sono reazioni a suo avviso legittime?

In realtà a lamentarsi sono stati una decina di darkettoni in tutto. Ha presente quei gruppi di vecchi reduci auto referenziali che si fanno i commenti tra di loro? Lasciamoli perdere, sono delle zecche. Sulla stampa se ne è parlato benissimo.

In un’intervista lei ha ricordato come un simile meccanismo di riproposizione di album «storici» è stato recentemente adottato anche dai Television per il loro Marquee Moon. Una citazione certo non casuale, la sua: con la prospettiva che possiamo avere noi oggi crede pertinenti i riferimenti che negli anni si sono spesso spesi nell’avvicinare la musica dei Diaframma alla scena (e ai connotati di genere) del punk/new wave anglosassone?
Direi proprio di sì. Da ragazzi – oltre ai Television, che conoscevo e amavo soprattutto io – abbiamo passato gran parte delle nostre vite ad ascoltare quello che succedeva nel mondo post-punk soprattutto anglosassone: Joy Division su tutti. Gestivamo anche un locale rock a Firenze dove si ballava la new wave e dove esordimmo sia noi sia i Litfiba. Il nostro coinvolgimento era totale.

In quelli che possono essere definiti gli anni della maturità – per alcuni semplicemente ritenuti anni dell’invecchiamento – non è fisicamente duro riproporre dal vivo dei contenuti musicali come quelli di Siberia, energici e a tratti anche rabbiosi?
Assolutamente no, anzi mi stanco molto di più nel fare i pezzi anni ’90, tipo Gennaio.

Anche il mondo nel frattempo è cambiato: crede oggi ci siano le condizioni soggettive e oggettive per rivivere e comprendere quel mondo espressivo?
Con mia enorme sorpresa devo dire che sì, c’è predisposizione anche oggi per quel genere di suoni. E poi il nostro pubblico è composto anche da ragazzi giovanissimi!

Nel corso degli anni i Diaframma hanno avuto un rapporto piuttosto dialettico con l’industria discografica, anche precorrendo i tempi con iniziative quali la fondazione di un’etichetta propria. Dal punto di vista attuale – dove per l’intera discografia la crisi sembra non toccare mai il fondo – come rivaluta quel vostro percorso decisamente indipendente?
In tempi non sospetti inventai addirittura l’odierno crowdfunding, nel lontano 1988: tutte le sere facevo i pacchi e poi la mattina andavo a spedirli alle poste, perché ho sempre privilegiato un rapporto stretto coi miei fan. Quindi da questo punto di vista mi sono ritrovato a essere all’avanguardia quasi senza accorgermene, nel tentativo di aggirare lo svilimento di certi rapporti che avevo con la discografia. Oggi è durissima, certo, ma mi dicono che i segnali sul ritorno del vinile sono molto incoraggianti: staremo a vedere.

Proprio relativamente al fenomeno della rinascita di alcuni supporti sonori del passato si è già discusso molto del vinile. Del ritorno della cassetta – formato piuttosto scomodo e qualitativamente non eccelso – cosa ci può invece dire, anche in relazione ad alcune vostre recenti ristampe pubblicate da Controtempo Records?
Dico che quelli della Controtempo sono più nostalgici di me, comunque la tiratura era bassissima (100 copie) ed è andata subito esaurita.

Il termine «indipendente» negli anni è assurto a rappresentare un approccio musicale generalizzato e anche un genere. Cosa trova – se c’è – d’indipendente nei giovani musicisti italiani che oggi si proclamano «indie»?
I tempi cambiano si evolvono e dagli anni 90 in poi le major hanno deciso di mettere sotto contratto molti gruppi indies, iniziativa lodevole, secondo me. Oggi i Verdena, Brunori, Baustelle, Le Luci della centrale elettrica, vanno nelle zone alte delle classifiche di vendita, ai miei tempi era semplicemente impensabile.

Vede attorno a lei qualcuno che in qualche modo può sentire come suo erede, anche puramente spirituale?
Non credo di avere lasciato eredi.