Fincher alle prese con Welles

Mank, un capolavoro che... non convince
/ 14.12.2020
di Nicola Mazzi

Mank – l’ultimo film di David Fincher prodotto da Netflix e che omaggia lo sceneggiatore di Quarto Potere Herman J. Mankiewicz (Mank) – nasconde un paradosso paradigmatico. Rischia di vincere più Oscar del film di Orson Welles. Certo, è difficile fare una previsione oggi, ma conoscendo l’egocentrismo e l’ammirazione dei membri dell’Academy verso i film che celebrano la propria storia, potrebbe andare proprio così. Intendiamoci. Il film è tutt’altro che brutto, anzi, è davvero bello, complesso e coraggioso, ma…

Siamo nel 1940 e seguiamo la vicenda dello sceneggiatore, temporaneamente infermo e isolato nel mezzo del deserto con due assistenti per scrivere la sceneggiatura di quello che diverrà il film più importante della Storia. Per farlo Mank si ispira alle frequentazioni avute negli anni precedenti con il magnate William Randolph Hearst e col capo della MGM Louis Mayer.

Oltre a nascondere questo paradosso (Welles che potrebbe venire premiato meno di Fincher), Mank mette in evidenza alcune questioni di fondo che bisognerebbe sviluppare in modo più ampio, ma cui è comunque giusto accennare. La prima impressione – ma spero di sbagliarmi – è che possa interessare molto gli addetti ai lavori e meno il pubblico. Perché parla di un’epoca storica (quella d’oro di Hollywood) precisa, e lo fa citando nomi ed eventi senza spiegarli troppo. La seconda questione riguarda il concetto sintetizzato nella magia del cinema.

La domanda di fondo che mi sono posto è: che senso ha realizzare un film che mostra il dietro le quinte di un altro film? Così facendo non si perde quell’alone mitico di magia che copre un film mitico come Quarto Potere? Certo, lo stesso discorso lo si può fare con gli extra dei DVD, con i vari documentari sui film, ecc. Ma in questo caso acquista maggiore significato perché entra nell’ingranaggio di uno dei film reputati più importanti di tutti.
Fincher ha avuto coraggio, è indubbio, perché ha osato toccare il totem. E lo ha fatto con maestria e usando una sceneggiatura che aveva scritto suo padre Jack, pur non riuscendo a realizzarla in vita. In questo senso

Mank è un omaggio multiplo: alla memoria del padre di Fincher, a quella dello sceneggiatore Mankiewicz, e anche a Quarto Potere. Fincher lo ha realizzato in bianco e nero, usando scenografie spettacolari che ricordano da vicino quel film, ma anche con effetti tipici della celluloide, come il segnale grafico del cambio di bobina o il sonoro sporco. E anche in questo senso, più stilistico, lo spettatore può chiedersi: è necessario, non risulta kitsch tutto ciò? Non dà l’impressione di una colonna greca costruita nel 2020?