Pet è un vocabolo anglosassone di uso internazionale che designa in modo generico un animale domestico (l’equivalente italiano è animale da compagnia, d’affezione, di diletto), e in un’accezione più articolata e personale: «un animale domestico trattato con inusuale considerazione come un bambino coccolato e di solito viziato». È la definizione proposta da Guido Guerzoni in un libro edito da Feltrinelli che s’intitola Pets. Come gli animali domestici hanno invaso le nostre case e i nostri cuori. Un libro, scrive Guerzoni, che è «frutto delle mie vicende biografiche e specchio delle incredibili trasformazioni che il nostro rapporto con gli animali, non solo quelli domestici, ha registrato nel corso degli ultimi cinquant’anni, di cui sono stato un modestissimo osservatore».
«Umanizzazione» e «parentizzazione» sono i processi che a partire dagli anni Novanta del secolo scorso sempre più vistosamente si accompagnano all’aumento globale degli animali domestici. All’origine del primo processo, in Occidente, Guerzoni addita «i pronunciamenti a favore di un’etica filo-animalista espressi da Leibniz, Voltaire e Bentham». Fondamentali tappe successive: le teorie darwiniane; gli studi scientifici che hanno dimostrato come molti animali provano sensazioni ed emozioni simili alle nostre, e sono in grado di comunicare attraverso linguaggi specie-specifici; il libro di Peter Singer Animal Liberation. A New Ethics for Our Treatment of Animals (1975), considerato il manifesto dell’antispecismo, in quanto contesta la superiorità dell’homo sapiens sulle altre specie animali; il riconoscimento giuridico che gli animali sono esseri senzienti, e conseguentemente soggetto di diritto.
«Dall’umanizzazione alla parentizzazione il passo è stato breve»: cani e gatti (ma ci sono pet lovers – sia pure in numero decisamente inferiore – che prediligono pesci e tartarughe, uccelli, conigli, criceti, o animali esotici di varia specie), da una ventina d’anni almeno non sono più considerati dei generici membri di un nucleo familiare, ma vengono trattati come figli, sicché «la nuova condizione di ‘genitori’ è oggi felicemente e orgogliosamente rivendicata dal 70-80% degli ex proprietari occidentali con minime variazioni su scala nazionale». Tant’è vero che non di rado sono oggetto di contesa per l’affidamento in cause di divorzio, o beneficiari di lasciti testamentari anche cospicui.
Sul piano sociodemografico, nella vastissima e variegata popolazione odierna dei pets lovers Guerzoni segnala tre segmenti emergenti. Il primo è rappresentato dai single (uomini e donne). Il secondo dagli over 65 («la letteratura clinica ha evidenziato gli innumerevoli benefici psicologici e fisiologici correlati alla cura dei pets, soprattutto tra le persone sole»). Il terzo è costituito dai cosiddetti DINKies (Double income no kids, coppie con doppio reddito/pensione senza/senza più figli), in così rapida ascesa «da essersi conquistati l’acronimo di DIPPies (Double income pampered pets, coppie con doppio reddito e pets coccolatissimi).
Ironico e puntuale, Guerzoni illustra con dovizia di dati gli eccessi (esilaranti per alcuni, scandalosi o sgomentevoli per altri) a cui è giunto un «processo di umanizzazione progressiva o animalizzazione regressiva» che è strettamente legato, come quello di parentizzazione, a ragioni di business (ma non solo). Ecco dunque – mi limito a trascegliere da un vasto campionario – i siti e le app di incontri sessuali per animali che non hanno subito interventi di sterilizzazione e castrazione. Ecco i pet hotels solo per loro. Ecco le innumerevoli e dispendiose creazioni della pet fashion. Ecco le lettiere, i passeggini e i trolley «firmati» (il trasportino-bauletto per cani di piccola taglia disegnato da Marc Jacobs per Vuitton costa 58.000 dollari). Ecco i sex shop con bambole per pets in grado di copulare. Ecco le palestre, le piscine, le polisportive con programmi specifici e macchine all’avanguardia. Ecco il fiorire di centri estetici, la moda del pet tattoing & piercing, gli interventi di chirurgia plastica. Ecco i ristoranti per pets only, un crescente numero dei quali con menu vegetariani o vegani, anche per ovviare all’aumento di allergie e intolleranze alimentari, nonché a quello dell’obesità, combattuta altresì con diete ipocaloriche e soggiorni in comunità terapeutiche.
Alimentazione e medicinali sono «il grande business dell’animal care». La vita dei «figli pelosi» si è allungata, al pari di quella dei loro «genitori». «Così, poiché invecchiano come noi, oggi i pets patiscono gli stessi malanni», anche di natura psichica (stati ansiosi cronici, depressione). Curarli costa caro, a volte carissimo. «Sebbene le opinioni siano controverse», scrive Guerzoni «io sono personalmente favorevole a questa evoluzione dei rapporti tra umani e animali. La considero una prova di amore, un atto di generosità, un segno di civiltà, il riconoscimento di diritti – alla salute e al riposo – negati per secoli a chi non aveva scelta tra lavorare “come una bestia” o essere mangiato, sovente dopo un’esistenza di violenze, sofferenze e privazioni.»