Siamo a Napoli, in casa di Gennaro e Lucia Parascandolo. Lui è un geometra e un piccolo imprenditore edile; lei una moglie e una madre con grandi ambizioni sociali. Lo prova il fatto che per la festa di compleanno della figlia diciottenne (che si terrà sull’ampia terrazza del loro appartamento condominiale) non ha invitato 42 persone, come crede il marito, bensì 84. (Particolarmente atteso è l’assessore ai lavori pubblici, il cui figlio è sentimentalmente legato alla figlia dei padroni di casa). Lo prova anche il fatto, di minor rilievo ma significativo, che in aggiunta alla domestica – confinata in cucina – ha noleggiato un cameriere indiano, che in realtà è un napoletano con la faccia tinta. Fervono i preparativi, cresce l’eccitazione, ma disgraziatamente (non dirò in che modo) il condomino novantaduenne del piano di sotto passa, come usa dire, a miglior vita.
È cosa decente fare una festa con 84 invitati mentre nel condominio c’è un morto fresco di giornata? Gennaro pensa di no, ma la moglie e la figlia non sentono ragioni. Quest’ultima minaccia addirittura il suicidio. L’unica soluzione pare quella di rivolgersi alla figlia zitella del defunto per chiederle di rimandare all’indomani l’annuncio del trapasso. Le sorprese saranno molte.
In quantità variabile, tutte le commedie di Vincenzo Salemme presentano dei tratti farseschi. Questo suo nuovo lavoro, Una festa esagerata...! (il prossimo marzo se ne potrà vedere la trasposizione cinematografica), è una farsa con rari e brevi indugi riflessivi (ad esempio le considerazioni di Gennaro sui condominî, «alveari senz’anima») che danno al protagonista una consistenza psicologica maggiore di quella degli altri personaggi e contrastano sensibilmente con l’andamento e la tonalità di tutto il resto. Nel corso dei secoli la farsa («genere» imperituro) si è modificata nei contenuti e nelle forme, in relazione ai diversi e mutevoli contesti socio-culturali. Ha progressivamente perso la trivialità sanguigna e plebea della farsa antica, diventando più «raffinata», più «elegante» (si pensi al vaudeville e alla pochade), ma conservando in vario modo e misura gli elementi propri del «genere», come gli equivoci e i giochi di parole (spesso di carattere sessuale), i tormentoni e le sorprese, la stranezza o l’assurdità delle situazioni, la recitazione un poco o molto sopra le righe, la presenza di «tipi» più che di «personaggi», oscillanti fra caricatura, macchietta e marionetta «metafisica». Tutti questi elementi si ritrovano nel teatro di Salemme, variamente distribuiti e declinati con perizia e originalità sia nella costruzione dell’intreccio, sia nell’invenzione delle situazioni e nella vivacità dei dialoghi: qualità che in parte sono frutto di un talento naturale, in parte di un mestiere appreso durante gli anni – sei, per l’esattezza – in cui Salemme ha lavorato come attore nella compagnia di Eduardo De Filippo. Al quale ha voluto rendere esplicitamente omaggio in due modi: inventando un invisibile dirimpettaio dei Parascandolo che ha nome Cupiello (a cui Gennaro rivolge di quando in quando la parola, ricordandoci il Pasquale Lojacono di Questi fantasmi!), e facendo riascoltare – mentre il sipario lentamente si chiude – la voce registrata del grande attore-drammaturgo nel ruolo del protagonista di Natale in casa Cupiello.
L’intento dichiarato di Salemme è quello di divertire, ma lasciando sempre intravedere, attraverso la comicità dei gesti, delle parole e delle situazioni, aspetti seriamente problematici della realtà contemporanea: una preoccupazione forse sgradita a chi è del parere di Alberto Savinio, che nella «farsa genuina» addita «un groviglio di fatti illogici», e parlando di sé aggiunge: «Nulla ci distrae così completamente, e diremo meglio: nulla ci astrae, quanto una farsa riuscita bene. Nulla ci porta tanto lontano dal mondo. Momento di follia. Svenimento. Sogno a occhi aperti». Il pubblico ride tantissimo durante la rappresentazione di Una festa esagerata...! Ma non è da escludere che alcuni, o forse molti, abbiano lasciato il teatro con l’amaro in bocca.
A me è tornato in mente ciò che Jean Anouilh ha scritto di Feydeau e di Pascal: gli unici autori, a suo giudizio, che hanno visto chiaro nella condizione umana, dove risplendono sinistramente due sole, irrefutabili certezze: la morte e l’egoismo dei viventi. Fatte le debite proporzioni, è ciò che vede e dice anche Salemme. Che dall’insegnamento di Eduardo ha derivato – e qui ne dà ulteriore dimostrazione – anche la capacità di inscenare i suoi testi con grande precisione e senso del ritmo, concertando in modo ammirevole la recitazione degli attori, che meritano di essere tutti nominati: Teresa Del Vecchio (moglie di Gennaro), Mirea Flavia Stellato, Antonio Guerriero, Nicola Acunzo, Giovanni Ribò, Antonella Cioli (la condomina zitella); Sergio D’Auria. Naturalmente c’è anche Vincenzo Salemme, bravissimo nel ruolo di Gennaro.