Fessure come ferite aperte

Lo spettacolo andato in scena al Foce, scritto e diretto da Cristina Castrillo, ha toccato corde profonde nel pubblico seduto in sala
/ 26.12.2022
di Giorgio Thoeni

Un’idea. Ne basta una sola e dev’essere quella giusta. Come quella da cui è partita Cristina Castrillo per imbastire Fessure, il suo recente spettacolo che ha debuttato nella storica sede del Teatro delle Radici. E infatti lo spunto ideale si specchia nell’arte giapponese del Kintsugi, una centenaria tecnica di restauro con cui vengono riparate le tazze in ceramica unendone i frammenti con l’oro. Ne risulta una trama dove il filo dorato impreziosisce la memoria della forma ricostruita, restituendo al recipiente una nuova vita.

Nella metafora del Kintsugi c’è il respiro di una delicata, fragile e affascinante dimensione filosofica, è quella che ha dato a Cristina Castrillo la vena drammaturgica con cui nutrire la sua creazione, esemplare e complessa al contempo. Come una tazza in ceramica la cui superficie ricomposta è attraversata da sottili filamenti dorati. Da un mondo di frammenti ecco che la ricostruzione si manifesta coi percorsi che escono da piccole aperture, fessure da cui lasciar filtrare il passato, la memoria, briciole di ricordi con cui ricostituire istantanee di vita, fra speranze e angosce, fra gioie e dolori. Il privilegio degli spettatori consiste nell’assistere allo spettacolo inserito in una struttura diversa, accolti in numero limitato su sedie disposte ai quattro lati della scena.

Uno spazio appena sufficiente, come quello offerto dalla sala del Teatro delle Radici, ma non per questo sminuente. Gli attori sono già seduti fra gli spettatori, le azioni nascono e si sviluppano con rigorosa attenzione, dapprima singolarmente poi con una cadenza corale. Gesti spezzati, movimenti ripetitivi, situazioni emblematiche accompagnate dalla parola, racconti sospesi espressi come in un rito collettivo dove le singole individualità emergono con tratti precisi, ricorrenti, dove ogni racconto è parte di un gioco simbolico guidato con mano sicura dalla regista argentina. Come per l’apparizione del modellino telecomandato di un carro armato che sbuca da sotto una sedia e dà l’avvio allo spettacolo muovendosi fra listelli di legno che compongono sei quadrilateri a cui è stata lasciata aperta una fessura. Una via di fuga, un ingresso o un’uscita, uno spazio entro cui proteggersi o da cui allontanarsi. Sono i luoghi per reminiscenze del passato o per l’ansia di un presente lugubre e inquietante, come la minaccia di una guerra. Nel buio appaiono anche dei lumini, segno di un auspicio, fiammelle accese in ricordo di ciò che è stato, nel desiderio di ritrovare la luce fra i cocci di un’umanità spezzata.

Nei messaggi, spesso avvolti da un’atmosfera triste, cupa, disagevole, la grande Storia tenta di riprendere il suo posto sul cuore della terra, come a volersi difendere dagli orrori di una tragica realtà da cui è impossibile scappare, come una dolorosa ferita che non riesce a rimarginarsi e che porta alla morte. «Perdonatemi guerre lontane se porto fiori a casa. Perdonatemi ferite aperte se mi pungo un dito» recitano i versi di Wislawa Szymborska (Sotto una piccola stella), unica citazione fra le parole degli interpreti di Fessure nel viavai incrociato di pensieri senza dialoghi: una dimensione testuale distaccata, scarna, immediata, asciutta. Come il rumore da scorribanda delle coccinelle meccaniche lasciate imprigionate all’interno dei quadrilateri disposti in scena. Un piano d’ascolto teatrale che è allusione a un incubo, a un labirinto testimone di una triste, impersonale e folle assenza di libertà. La fessura ormai si è chiusa mentre il piccolo carro armato continua a sorvegliare con il fascio dei suoi fari le buie macerie di un’umanità persa nella vana ricerca di una speranza. È il segnale con cui si congeda la rappresentazione. Applausi meritati per Giovanna Banfi Sabbadini, Bruna Gusberti, Ornella Maspoli, Massimo Palo, Nunzia Tirelli e Irene Zucchinelli.