Era più importante tornare al cinema, ai festival e in Piazza Grande, dei singoli film. Così è stato per il 74esimo Locarno Film Festival che si è concluso sabato sera. Un’edizione importante per ripartire dopo l’interruzione forzata del 2020, con la partecipazione di meno spettatori e meno addetti ai lavori che in passato, ma tutti animati dalla voglia di ritrovarsi e ricominciare, nonostante le incognite. Mentre scriviamo non sono ancora noti i premiati e sono passati tutti i film del concorso internazionale tranne l’hongkonghese A New Old Play di Qiu Jiongjiong, sulla carta uno dei più promettenti.
L’impressione è che sia mancato il film del festival, quello che contrassegna un’annata, così come tra i 17 in gara non c’era un netto favorito per il Pardo d’oro. La giuria presieduta dalla regista americana Eliza Hittman (da vedere il suo Mai raramente a volte sempre dello scorso anno) avrà avuto i suoi dilemmi nel scegliere tra opere di livello medio-discreto. Il premio maggiore potrebbe aver preso la strada dell’Indonesia, della Russia o della Francia.
Dal sudest asiatico è arrivato Vengeance Is Mine, All Others Pay Cash di Edwin, curioso intreccio di noir e melodramma ambientato nel 1989. Protagonista è Ajo, il duro del villaggio, uno che non teme nessuna sfida. Tutti sono però a conoscenza dei suoi problemi di impotenza, che forse affondano in un episodio vissuto da ragazzino. Un giorno si innamora di Iteung, anch’ella una dura sprezzante del pericolo. Un film sorprendente, che spiazza per poi tirare le fila nel finale.
Interessanti i due film russi, più ambizioso Medea di Alexander Zeldovich, più equilibrato e compiuto Gerda di Natalya Kudryashova, che potrebbe avere più possibilità di premio.
Il punto di forza del primo sta in una regia creativa e visionaria, con anche la più bella scena di sesso (simulato) del festival. Medea sposa un uomo ricco e corrotto dopo esserne stata l’amante per molti anni, ma, per proteggere il suo status, finisce con l’uccidere il proprio fratello e le conseguenze saranno drammatiche. Ritorna la spiritualità in Gerda che è il nome che la studentessa di sociologia Lera adopera quando lavora in un night. Tra le favole in cui crede la madre e l’osservazione della realtà attraverso i questionari che sottopone ai cittadini, un film non originalissimo (ricorda per certi versi Mermaid di Anna Melikyan del 2007) ma certamente curioso.
Parte da un’idea interessante, un pianeta abitato quasi da sole donne, After Blue del francese Bertrand Mandico, che unisce fantascienza filosofica e western, con ammiccamenti modaioli, qualche pretesa di troppo e lungaggini inutili. Per la Francia c’era anche Petite Solange di Axelle Ropert, storia sentimentale di un’adolescente.
Tra i migliori anche l’italiano I giganti di Bonifacio Angius, che era già stato a Locarno con il suo esordio Perfidia. Cinque uomini si ritrovano in una casa isolata tra droga, alcol, ricordi e parole fuori luogo, in una sorta di Le iene in chiave sarda. Una storia assurda e nichilista dall’atmosfera disperata già dalle premesse.
Da citare lo spagnolo Sis dies corrents di Neus Ballus e l’islandese Cop Secret di Hannes Halldorsson, due tipi di film che raramente raccolgono premi ma sono tra i più consigliabili a un pubblico largo. Il primo è una curata commedia che vede protagonisti due tutto fare, uno di mezz’età fuori forma e un giovane immigrato atletico, che vanno nelle case per effettuare riparazioni varie con esiti imprevisti e mai banali. Il secondo è un poliziesco, anche qui con due colleghi molto diversi tra loro: non mancano le assurdità tra inseguimenti adrenalinici, implicazioni omosessuali e citazioni del cinema anni ’80.
Qualche scoperta è arrivata dai Cineasti del presente, competizione riservata alle opere prime e seconde. Tra queste la coproduzione Georgia-Svizzera Wet Sand di Elene Naveriani che ruota intorno a un bar sulla spiaggia del Mar Nero e all’improvviso suicidio di un avventore che rivela segreti ben nascosti. Altra coproduzione svizzera è Zahori di Mari Alessandrini, ambientato sulle Ande argentine con la tredicenne Mora che vuole giocare a calcio e fare il gaucho e si ribella alla famiglia di origine italo-svizzera, ecologista e vegetariana, mentre cerca il cavallo bianco di un anziano vicino che è scappato durante una notte di vento.
Nell’eclettico programma di Piazza Grande c’era l’attesissimo Monte Verità di Stefan Jäger girato in Ticino. Una pellicola per ricostruire l’esperienza della nota comunità di inizio ’900, introducendo il personaggio inventato della protagonista Hanna, una giovane moglie viennese che lascia la famiglia per cercare ad Ascona la realizzazione personale. La ricostruzione storica è accurata e lodevole e pure il tentativo di andare oltre gli stereotipi, manca un po’ il coinvolgimento emotivo e funziona di più la storia di emancipazione di Hanna che la descrizione del contesto.
Forse per farsi sorprendere c’era da esplorare le retrospettive, le sezioni collaterali e il fuori concorso, magari con le undici ore del portoghese Pathos Ethos Logos di Joaquim Pinto e Nuno Leonel, già a Locarno nel 2014 con lo stupendo What Now? Remind Me.