Siete mai stati al Giardino dei Tarocchi, a Capalbio? È un parco sorprendente. La statua della morte, per dire, è il contrario della sua classica iconografia da ossario seicentesco. Qui è coloratissima e tutta curve. Mette allegria. Cavalca un destriero avvolto in un manto blu scintillante coi simboli delle stelle e dei pianeti. Ci voleva la verve incontenibile di un’artista come Niki de Saint Phalle per immaginarla così bizzarramente attraente.
Chi ha visto la mostra che le ha dedicato il Kunsthaus di Zurigo non ha bisogno di troppe spiegazioni. La pittrice, scultrice, regista e realizzatrice di plastici nata a Neuilly-sur-Seine nel 1930 e morta a San Diego nel 2002, non è artista da lasciare indifferenti. Le esuberanti Nanas o le grandi installazioni nello spazio pubblico restano indelebilmente impressi nella mente. Per non parlare delle Shooting paintings, performance artistiche durante le quali il pubblico o l’artista stessa sparavano con una carabina su rilievi di gesso nei quali si trovano dei sacchetti di pittura, che esplodevano al momento dell’impatto. Come fai a distogliere gli occhi da cose del genere?
Qualcuno, in Ticino, se ne sarà reso conto anche solo passando con l’auto accanto a Palazzo Turconi, sede di una parte dell’Accademia di architettura a Mendrisio, dove fa spettacolare mostra di sé la gigantesca scultura L’Oiseau amourex, un inno alla vita sotto la facciata neoclassica dell’ingresso.
Oggi il genio di Niki è celebrato da tutti. Non è sempre stato così. Ce lo conferma Bloum Cardenas, che con lei aveva un rapporto unico, visto che è sua nipote (figlia della figlia). Oggi Bloum è presidente del Giardino dei Tarocchi, a Capalbio, in Toscana, l’ultimo progetto dell’artista francese, un singolare parco di sorprese per gli occhi e per la mente, frequentato – ci assicura – da oltre 100mila visitatori l’anno.
Ed è proprio qui, a Capalbio, che possiamo tracciare un ritratto intimo e poco conosciuto dell’artista grazie a lei e a un suo amico speciale, l’architetto Mario Botta che, parole di Bloum, «per Niki è stato una vera fonte di amicizia e di forza in un momento in cui era molto fragile, la morte di Jean».
Jean, ovviamente è Jean Tinguely l’artista svizzero che è stato il suo ultimo compagno di vita e d’arte. Al loro sodalizio si devono opere eccezionali come il Ciclope di Milly-la-Forêt, la fontana Stravinsky di Parigi, la fontana a Château-Chinon e – finché Tinguely era in vita, cioè fino al 1991 – il Giardino dei Tarocchi, appunto.
«Quando lui è morto, mia nonna si è sentita tradita da diverse persone», ci dice Bloum. «Mario, invece, è sempre stato qui per lei, umanamente e professionalmente. La morte di Jean l’aveva destabilizzata, così come la reazione degli altri a quella morte. Volevano fare di lei una “vedova d’artista”, ma lei era artista, non vedova d’artista. Mario le è stato amico e alleato. La loro amicizia è nata da un evento triste, ma ha dato moltissima forza a Niki perché le ha permesso di tuffarsi in un nuovo progetto creativo. Lavorare con Mario, per lei, significava avere un rapporto con la sua visione «solida» della vita e dell’architettura, qualcosa di molto importante. Non a caso lo ha invitato a realizzare la separazione muraria del giardino dal resto del mondo. Una grande dimostrazione d’amore e di stima».
«L’avevo conosciuta al funerale di Jean Tinguely», ricorda l’architetto ticinese fermo davanti a una fontana dell’amica scomparsa. «Era una donna fantastica, piena di gioia di vivere e di fare. Ogni colpo di telefono, ogni comunicazione, ogni incontro con lei era per fare qualcosa. Non era contemplativo. Era per portare a termine i progetti che c’erano qui, seguendo una visione di un mondo ludico e positivo che lei ha alimentato dagli anni Sessanta in avanti. Attraverso le trasformazioni di questo parco portava avanti il progetto di una gioia di vivere. Gioia dei bambini, ma anche di quegli adulti che sono ancora capaci di vivere le emozioni dell’infanzia».
Sul filo dei ricordi incrociati della nipote e dell’amico, entriamo nella Sfinge, una delle statue più monumentali del parco. All’interno siamo avvolti dal riverbero roteante di migliaia di luci di specchi, che tappezzano la superficie curvilinea della stanza, perché di stanza – anzi, di casa – si tratta a tutti gli effetti. In un anfratto c’è una cucina, in un altro una specie di carrellino, sali le scale ed ecco il letto. Sembra di essere finiti dentro un sogno luminoso, una realtà parallela e segreta. Qua dentro, ci spiegano i nostri interlocutori, Niki ha vissuto per sette anni. «La Sfinge è uno spazio fantastico, osserva Botta. Non c’è il cielo, c’è soltanto il riflesso delle cose. In questo spazio interno appaiono strumenti dell’esterno, come il carrello. Qui l’esterno e l’interno possono essere rovesciati. È spiazzante, ma è fatto apposta».
In questa tana da Bianconiglio Niki ha vissuto per ben sette anni. E qualche volta, da ospite, ci ha dormito anche Mario Botta. «Niki aveva fatto mettere delle serpentine nel pavimento», ricorda Bloum. «Ci si camminava a piedi nudi. Là sopra – dice indicando un vano verso l’alto – c’era una libreria; salivi da questi pioli e prendevi i libri, quasi tutti testi esoterici, numerologici, Talmud. Mi sono fatta fare i tarocchi solo da lei e ho deciso che non me li sarei fatti fare da nessun altro. Era una maga, una strega dal punto di vista della forza magnetica e della conoscenza. Tutto funzionava alla perfezione, anche la cucina che però nessuno usa più da vent’anni. Chissà magari, un domani, per fare fundraising, faremo venire uno chef a cucinare e lasceremo a disposizione il letto per una notte… Vedremo».
Per anni, osserva la nipote «Niki si era battuta contro l’angolo retto. Qui dentro voleva sentirsi come nel ventre di sua madre, anche se diceva di non avere un buon rapporto con lei. Ma a un certo punto non ne poteva più, voleva un posto con gli angoli. Voglio vivere come in un loft newyorkese, diceva. E infatti l’ha costruito sotto la Sfinge e alla fine è andata a vivere lì. Oggi, nel «loft», ci teniamo l’archivio di tutte les moules, le ceramiche, le nanas, gli specchi».
Le chiediamo che nonna era Niki de Saint Phalle. «Ho avuto più fortuna di tutti perché ha voluto essere la migliore nonna del mondo e ci è riuscita. Ripeto, era una maga. Mi ha permesso di capire molto in fretta che noi siamo il nostro stesso limite. Aveva un’immaginazione immensa e la realizzava nel concreto. Tutto è possibile se hai l’idea e la volontà e se sei pronta a batterti».
Usciamo dalla Sfinge e attraversiamo, silenziosi, buona parte del Giardino e delle sue magie. «Provo una grande emozione – osserva Mario Botta – accompagnata anche da una grande malinconia. Nel senso che l’epoca di questa concezione, di questo spirito che vedeva lontano il Duemila, che pensava che nel Duemila dovesse finire e cominciare il mondo, è stata bruciata da questi anni così complicati. A posteriori sappiamo che il Duemila non ha risposto alle attese messianiche, attese che erano dentro la gioia di vivere di questa gente. Quindi provo una grande nostalgia per i nostri anni consumati e per lo spirito del tempo. Si vede che questo era un tempo di speranze e di gioie, ma poi si è bloccato di fronte al potere degli uomini. Non c’è alternativa possibile alla gioia di vivere di quei tempi, quando gli artisti erano dei vettori di gioia».