Emozioni emoji

Il primo film dedicato alle faccine che riempiono le nostre vite e i nostri smartphone approda al cinema: un flop
/ 04.09.2017
di Mariarosa Mancuso

Il film più brutto dell’estate. Forse dell’anno. Ben piazzato per essere tra i brutti film del decennio. Nessuno si aspettava granché da The Emoji Movie di Anthony Leondis (dallo scorso luglio nelle sale americane, in Ticino a fine settembre). Dopotutto, era il punto più basso nella categoria delle cose che diventano protagoniste di film.

The Lego Movie e Lego Batman (da una costola del precedente) sceglieva una marca con storia e dignità, capace di cadere e rialzarsi (i mattoncini erano al minimo storico quando misero in cantiere i pupazzetti con i personaggi di Star Wars e compagnia). Vale lo stesso per Barbie di Alethea Jones, annunciato con la comica Amy Schumer ora sostituita da Ann Hathaway (in uscita l’estate prossima). La bambola è un’icona, le polemiche non hanno fatto altro che svecchiarne l’immagine, e la trama ha un tocco di femminismo light, ecco perché nessuna delle due attrici somiglia al modello: una Barbie con qualche difetto viene cacciata da Barbieland e si rifugia nel nostro mondo. All’origine di tutto, vale la pena di ricordarlo, ci fu la mitica Pixar con Toy Story: i giocattoli che temono i compleanni e il Natale, sanno che arriverà la concorrenza ad attirare l’interesse e l’affetto dei bambini.

Gli emoji sono troppo giovani e troppo semplici per reggere un film. Figuriamoci per rivoluzionare il linguaggio e renderlo finalmente universale, come sostiene qualcuno che ancora non si è ripreso dal crollo della Torre di Babele (e non ha curiosato tra le centinaia di progetti intenzionati a riformare le imperfette lingue che parliamo, tutti falliti). Esempio pratico e banale: diciamo «uomo», la parola non porta con sé altre connotazioni, si può usare per i bianchi per i neri e per i gialli. Le faccine «umane» degli emoji – evoluzione dello smile, se vogliamo – sono nate gialline, e ora esistono in tante sfumature, dal rosa fino al nero, con i capelli crespi e lisci. Non sembra un grande passo avanti, in vista della semplificazione (neanche considerando la preoccupazione, sempre più assillante, di non offendere o escludere nessuno).

Sembra un paradosso, ma gli emoji mancano di emozioni. Perlomeno, di quelle che servono a una storia. Ognuno è fissato nella sua, nel gergo degli sceneggiatori significa che non si dà evoluzione del personaggio: la cosa peggiore che possa succedere in un film. È successo lo stesso con la faccina che comunica «sto scherzando», da mettere quando non siamo sicuri della reazione dell’interlocutore, o temiamo di averla sparata grossa. Le diverse risate – grasse, stizzite, di cuore, di testa – sono appiattite sulla smorfietta dell’emoji predisposto.

Il flop di The Emoji Movie si poteva prevedere a tavolino, come capita in certi film italiani già fallimentari in fase di sceneggiatura (che però vengono comunque finanziati). La Columbia Pictures si è lasciata trascinare dalle sirene del giovanilismo – ormai nelle sale vanno solo gli adolescenti, oppure le pantere grigie come Robert Redford e Jane Fonda (alla mostra di Venezia per ritirare il premio alla carriera), mentre gli adulti soffrono. Ragionando come chi è convinto che un account Facebook o Instagram risolvono i problemi dell’azienda.

La trama racconta un emoji che fa sempre la faccina sbagliata. A differenza dei suoi compagni – chiusi nelle loro cellette – egli è difettoso, l’avventura consiste nel trovare qualcuno che lo ri-programmi. Ci sarebbe potuta essere una possibilità di trama alla Divergent – altra saga cinematografica per adolescenti: allo scoccare dei 16 anni un test attitudinale ti sistema tra gli Intrepidi o tra gli Eruditi, tra i Candidi o tra i Pacifici; se non entri in nessuna categoria ti uccidono, perché destabilizzi la società. Qui niente, l’unico momento da dibattito arriva quando «dammi il cinque» viene sostituito dal «pugno contro pugno» (nero).

 

Sfortunati al cinema, gli emoji sono fortunati in poesia. La Paris Review ha appena indetto un concorso di poesia che li coinvolge. «I poeti immaturi imitano, i poeti maturi rubano», sosteneva T. S. Eliot. I millennials traducono poesie famose in emoji. Sul sito, tre composizioni con faccine e simboli, bisogna risalire all’originale. Due le abbiamo azzeccate: una subito – Oh capitano mio capitano di Walt Whitman, e una quasi subito – La Tigre di William Blake. La terza ha resistito ai nostri sforzi, finora. E dire che avevamo fatto esperienza leggendo un Moby Dick tradotto in emoji, dove l’incipit «Chiamatemi Ismaele» era reso con un telefono, vecchio modello da tavolo con tanto di cornetta.