Effetti collaterali

L’autore ticinese Andrea Fazioli propone ai lettori di «Azione» un racconto natalizio in esclusiva
/ 19.12.2016
di Andrea Fazioli

Nei corridoi del vecchio liceo non si avvertiva l’odore del sangue, ma il professor Fedeli lo sentiva scorrere. Era un fiume di sangue. La violenza più efferata, la forza bruta, senza ritegno. Gli studenti non se ne accorgevano, perché alle loro orecchie le parole giungevano attutite dalla metrica, dalla voce salmodiante dello stesso Fedeli. Ma di che cosa stavano parlando? Di un giovane solitario che s’innamora di sé stesso, specchiato nella sua bellezza, e che finisce per ammazzarsi. Di un uomo che si cava gli occhi per la disperazione. Di una donna tradita dall’amante che si vendica con ferocia, uccidendo i suoi stessi figli.
– Non ho capito gli ultimi versi – disse il professore.
Lo studente deglutì prima di ripetere. – «Perché vorrei stare tre volte presso uno scudo piuttosto che partorire una volta sola».
– «Perché vorrei»? – chiese Fedeli.
– È un… cioè, intende che preferirebbe combattere, trovarsi in prima linea, piuttosto che…
– Ho capito. – Fedeli si schiarì la voce. – Ma sarebbe meglio tradurre: «Come vorrei». Corrisponde all’ut latino. E il verbo?
– Il verbo?
– Il verbo. Che verbo è?– È un… ottativo?
– Senza punto di domanda.– Un ottativo – ripeté lo studente. – Ottativo presente. Che ha valore desiderativo… come il latino… come…
Si era fatto male da solo. Fedeli lo lasciò annaspare per qualche secondo, poi tagliò corto:– Come il latino velim. Bene, dopo le vacanze preciseremo la struttura di questa scena. Ricordate di leggere fino al verso 270.

Gli studenti alzarono le sedie sui banchi e uscirono in fretta. Nessuno di loro, nell’infilare il libro nello zaino, pensò al sangue. Eppure avevano sentito il lamento di Medea; sapevano che, per vendicarsi di Giasone che l’aveva tradita, aveva ucciso in modo atroce la sua rivale e poi sgozzato i suoi stessi figli. Ma tutto, nelle aule dal soffitto alto, con un perenne soffio di termosifoni, prendeva il sapore polveroso della grammatica e dei trimetri giambici. Così era stato anche per l’episodio di Narciso, di cui Fedeli aveva parlato in seconda liceo, e perfino per la sventura di Edipo. Squillò il campanello. Fedeli rimase seduto alla cattedra, pensando ai versi che restavano uguali negli anni, mentre generazioni di allievi si sostituivano l’una all’altra. Una sequela di facce anonime, più impalpabili dei figli di Medea. «Primo figlio» e «Secondo figlio», così li chiamava Euripide. Troppa fatica dare loro un nome, tanto poi sarebbero morti lo stesso…

Fedeli fece scivolare il libro e la stilografica nella cartella di pelle. Guardò la pioggia fuori dalla finestra, come un sipario grigio, e dietro la pioggia il ricamo delle luci natalizie. Gli venne in mente che doveva fermarsi a prendere il vino, sulla via del ritorno. Quella sera Giovanna sarebbe passata da lui per quello che aveva definito «un brindisi intimo». C’era qualcosa nell’espressione che infastidiva Fedeli, come uno stridore. Troppe «i», forse. E poi l’intimità, con tutte le sue promesse, non andrebbe accostata all’allegria banale di un brindisi. 

Uscì nel corridoio e venne quasi investito da un ragazzo che correva verso le scale. Fedeli stava per rimproverarlo, ma poi lasciò perdere. Il ragazzo borbottò uno «scusi». Doveva essere del primo anno: avevano ancora la smania di muoversi, di occupare gli spazi. Poi, crescendo, si facevano sempre più lenti, con un territorio vitale più ristretto; li vedevi radunarsi in gruppi circoscritti, elitari: chi nel pianerottolo all’ultimo piano, chi accanto al gabbiotto del custode, chi nei bagni del terzo piano, presidiati da un manipolo di ragazze spietate.

I figli di Fedeli avevano superato anche quella fase: Andrea studiava relazioni internazionali a Ginevra, mentre Teseo – dopo la laurea triennale in scienze della comunicazione – stava ultimando un master in gestione dei media. Tutte materie senza sangue, pensava Fedeli. Il giorno dopo avrebbe visto entrambi i figli, insieme a Simonetta, la sua ex moglie, per il solito pranzo a casa dei suoceri, a base di salmone, tartine, uova ripiene di tonno, arrosto in crosta, patate, tiramisù, con vini bianchi (Greco di Tufo, come ogni anno), rossi (Morellino di Scansano), dolci (Moscato d’Asti) e poi nocino, grappa fatta in casa, caffè. I suoceri erano troppo vecchi per cucinare, così Simonetta e Lidia, sua sorella, avrebbero preparato tutto in mattinata. Fedeli prevedeva di farsi vedere verso mezzogiorno, munito di Moscato e panettone. Ai regali per i ragazzi per fortuna ci pensava Simo, che di solito comprava loro un maglione o un buono per un weekend da qualche parte.

A pochi passi dall’aula docenti, udì uno schiamazzo e si ricordò dell’aperitivo. Ebbe un’esitazione. Se si fosse lasciato coinvolgere, avrebbe dovuto bere vino bianco scadente in bicchieri di carta, destreggiarsi fra le solite chiacchiere e lamentarsi dei consigli di classe che duravano troppo, dei ragazzi che non leggevano più, dei nuovi corsi di aggiornamento che erano una fregatura.

Di solito a Fedeli non dispiaceva lamentarsi un po’. Ma quella sera, all’inizio delle ultime vacanze di Natale della sua carriera, si sentiva particolarmente vulnerabile. Era in quello stato d’animo che fa dire ai personaggi dei film: voglio starmene da solo per un po’. Una frase che Fedeli non aveva mai sentito pronunciare nella vita reale.

Non sapeva la causa della sua inquietudine. Era un effetto collaterale del clima natalizio o era l’ombra del prossimo pensionamento? Oppure era il pensiero del sangue versato da Medea… quante volte aveva letto quei versi senza badarci; ora invece gli sembrava un caso di cronaca nera. Pensò alle tragedie che finivano in pasto ai giornali e alla tivù: marito che accoltella la moglie, madre che soffoca i bambini. Il mondo era pieno di sangue. Ed Euripide, nel 431 avanti Cristo, aveva sentito il bisogno di raccontare proprio quella storia, quello strazio assurdo.

Tornò indietro e riaprì l’aula dove aveva fatto lezione. Accese la luce, si sedette alla cattedra, tolse il libro dalla cartella. Di fronte a lui, la distesa dei banchi vuoti, con le sedie rovesciate che parevano tanti alberi di navi ferme nel porto. Sfogliò il libro fino al monologo di Medea nel quinto episodio. Erano passati più di quarant’anni da quando, per la prima volta, in quello stesso liceo, il giovane Carlo Fedeli aveva studiato ogni minuzia grammaticale di quei versi, preparandosi all’esame di maturità.

«È necessario che essi muoiano» – ecco il verdetto spietato. «E poiché è necessario, li ucciderò io che li ho generati». Il male si presenta sempre in questo modo, pensò Fedeli, come necessità. Non soltanto il male: anche il fluire della vita è una serie di necessità inesorabili, come il liceo classico, gli aperitivi, i messaggi di auguri, la vecchiaia, l’amore, il salmone con i crostini e il Moscato d’Asti. Il greco lo diceva con una parola sola, un indicativo perfetto passivo: πεπρωται. È stabilito dal destino.

Carlo Fedeli credeva nel destino? Dopo tanti anni in cui ne parlava agli studenti, non era sicuro di sapere bene che cosa fosse. Era stanco morto: sette ore di lezione si facevano sentire. Inoltre da mesi soffriva d’insonnia; e quel mattino si era alzato presto, dopo appena due o tre ore di sonno, per finire di correggere. Gli venne in mente che qualcuno sarebbe potuto venire a sbirciare nell’aula, così spense la luce, chiuse la porta e tornò a sedersi alla cattedra. Pensò di chiamare Giovanna, ma si accorse che aveva il telefono scarico: il simbolo della batteria era di colore rosso. Si limitò a scriverle un sms: «Sto scappando dal vino nell’aula docenti… poi corro a casa e ti aspetto. Bacio».

Il suono della pioggia lo circondava, picchiettando contro i vetri e gorgogliando nelle grondaie. Spinse la Medea di fianco, incrociò le braccia davanti a sé e vi posò sopra il capo. Una siesta di cinque minuti lo avrebbe aiutato a ritrovare le energie per la serata con Giovanna.

Mentre il professore dormiva, l’aperitivo in aula docenti si esaurì lentamente, insieme alle bottiglie di prosecco. Qualcuno si stupì dell’assenza di Fedeli.

– Sarà con la sua nuova fiamma… – scherzarono i colleghi.

Anni prima, Fedeli aveva avuto una storia con una collega: un’insegnante di francese con cui aveva condiviso una gita a Praga. Poi però, visti i risultati disastrosi della relazione e la successiva ondata di pettegolezzi, aveva sempre badato a tenere distinte la sua vita privata e quella scolastica. Così gli altri non si fecero troppe domande e, uno alla volta, se ne andarono a casa. Infine il custode controllò che le finestre fossero ben chiuse e sprangò il portone, dopo aver spento l’interruttore generale che regolava le lampade nei corridoi e nelle aule.

Un minuto dopo, Fedeli si risvegliò. Per qualche secondo rimase disorientato dal buio e dal freddo. Rabbrividì e, rialzandosi, scoprì di avere il collo indolenzito. Non aveva l’impressione di aver dormito per più di dieci minuti, eppure… Fece per illuminare lo schermo del cellulare, ma non ci fu nessuna reazione. Allora si mosse verso la porta e premette il pulsante della luce, ma non accadde nulla. Un black out? Si avvicinò all’orologio e, al chiarore fragile delle decorazioni natalizie, riuscì a decifrare l’ora: le 19.45.

Aveva dormito più di due ore! Com’era possibile?

Aveva male in ogni parte della schiena, del collo, delle braccia. Pensò di andarsene a casa e di farsi un bagno caldo, prima dell’arrivo di Giovanna. Ma come uscire? Non aveva le chiavi dell’ingresso, e nemmeno della porta sul retro. Certo, avrebbe potuto chiamare dal telefono fisso in aula docenti… ma chiamare chi? Avrebbe fatto una figuraccia: sono rimasto qui, venite a tirarmi fuori! Sarebbe diventato una barzelletta: il vecchio professore di lingue morte che si addormenta la sera di Natale. Gli studenti l’avrebbero trasmessa di generazione in generazione…

Pensò di chiamare Saverio, il custode: in cambio di una generosa mancia, avrebbe potuto contare sulla sua discrezione. Si avviò lungo il corridoio in penombra. Il Babbo Natale al neon in cima alle scale era spento, ma le stelle fosforescenti – appese dai docenti di arti visive lungo le pareti – avevano conservato una vaga luminescenza.

Con tutte le porte delle aule sbarrate, l’edificio scolastico metteva quasi soggezione. Dopo averci passato i suoi anni da liceale, Fedeli aveva insegnato lì dentro per quarant’anni, eppure non l’aveva mai visto in quel modo: gli spazi parevano enormi, i soffitti altissimi, il buio inghiottiva la fine del corridoio. Sebbene sapesse che non c’era nulla da temere, salvo una figuraccia storica, Fedeli non poté fare a meno di sentirsi impaurito. Gli tornò in mente Euripide, il sangue, il grido spaventoso di Medea… e tutto il resto, tutto quello che aveva raccontato anno dopo anno: dietro ogni mito si celava la disperazione, anime smarrite in un mondo spaventoso, dove ogni tuono, ogni lampo, ogni movimento di terra e di mare era una condanna divina.

Arrivò in fondo al corridoio e guardò nella voragine oscura delle scale. Stava all’ultimo piano: due rampe più in basso c’era l’aula docenti, mentre sopra di lui, gli scalini portavano a un minuscolo pianerottolo e alla porta di un ripostiglio. Fedeli se ne ricordava perché da ragazzo, al suo primo anno di liceo, andava spesso a rifugiarsi lassù.

Charlie, come lo chiamavano tutti allora, era popolare solo fra le insegnanti di una certa età: una specie che tende ad accordare i suoi favori alle creature solitarie, studiose e, per dirla francamente, un po’ sfigate. La sua salvezza era stato l’incontro con Simonetta, in seconda liceo. Con lei aveva attraversato anni di associazioni culturali, giornalini, cineforum. Avevano entrambi studiato a Pavia: Simo filosofia e lui lettere classiche. Qualche anno più tardi si erano sposati.

Era finita com’era finita, però Fedeli ricordava ancora quando, dopo averla baciata per la prima volta, era corso lassù, in cima alle scale, perché voleva assaporare la sensazione. Protetto dagli sguardi altrui, aveva perpetrato uno di quei gesti ridicoli che, al momento, sembrano rivestire un grande significato: con la chiave della bicicletta, aveva intagliato nel legno della porta il suo nome e quello di Simo, uniti dalla forma di un cuore. Un cuore! Un’azione infantile di cui lo stesso Charlie in pubblico avrebbe riso. Ma quando si è soli su un pianerottolo, con il cuore che scoppia, i gesti infantili sono un modo come un altro per placare la tempesta ormonale.

Il professor Fedeli immaginò quel ragazzino ormai scomparso nella macina del tempo. Con i jeans sdruciti, quei maglioni che gli piaceva indossare, di una o due taglie troppo larghi, le scarpe da ginnastica consunte e un ciuffo di capelli biondi che in nessun modo riusciva a governare. Era magrissimo. Aveva gli zigomi alti, il mento aguzzo. Gli anni avevano smussato gli spigoli, addomesticato i capelli; e solo gli occhi celesti restavano come allora spalancati davanti a ciò che lo stupiva, senza battiti di ciglia, quasi fosse ipnotizzato.

C’era qualcosa che non andava. Fedeli restò a fissare nel buio, ma il segnale d’allarme non era giunto tramite la vista: era un suono, un’increspatura nel picchiettio regolare della pioggia. Un respiro? Come se qualcuno stesse cercando di non farsi scorgere, mentre teneva d’occhio il professore all’angolo delle scale.

Basta. Era solo paranoia: un effetto collaterale del buio e della stanchezza. Fedeli fece per scendere gli scalini: prima arrivava nell’aula docenti, prima sarebbe tornato a casa. Il cellulare era scarico, ma avrebbe cercato il numero del custode su internet e poi…

Di nuovo quel rumore. Stavolta Fedeli si voltò di scatto e lo vide.
Era lui. A pochi metri, nell’ombra del corridoio. La figura magra, con i capelli biondi, i jeans, le scarpe dalle stringhe slacciate. La faccia restava nell’ombra, ma a Fedeli parve d’intuire lo scintillìo dello sguardo. Era un’allucinazione? Per la prima volta da anni aveva ripensato a quei tempi e ora Charlie se ne stava lì di fronte a lui, immobile, come spaventato.

Fedeli pensò che fosse uno scherzo dell’immaginazione. Allungò una mano e si trovò a mormorare:
– Charlie…
Il ragazzo si spaventò. – Ehi! – Si tirò indietro, ma Fedeli fece in tempo a sfiorarlo e a capire che era solido e concreto.

Esistevano i miraggi corporei?
– Charlie – ripeté il professore.
– Me ne stavo andando! – disse il ragazzo, con la voce roca.
– Sei tu? – Fedeli fece una pausa. – Sono io?
Ma il ragazzo si era voltato ed era corso indietro, lungo il corridoio, fino a sparire nel buio. Fedeli era ancora immobile a metà della scalinata. Si accorse che stava tremando. Quello che aveva visto era assurdo.

Era Charlie, senza dubbio. Stessi capelli, stesso atteggiamento, stessa voce sgraziata. Aveva incontrato se stesso, dopo quarant’anni! Ma non era possibile, in realtà, perché Charlie era mutato nel tempo fino a diventare il professor Carlo Fedeli, appunto. Come faceva a essere ancora lì, nel grande liceo silenzioso? Che cosa significava tutto questo? Il destino avrebbe dovuto procedere inesorabile, come nelle tragedie e nei miti e nella grammatica. Il passato era passato, e non poteva farsi presente né futuro. Nemmeno nei corridoi deserti e oscuri, nemmeno la notte di Natale. Eppure… il professor Fedeli aveva visto, aveva sentito.

Restò a lungo immobile, aggrappato alla balaustra, incapace di scendere o di salire. Poi, dal basso, vide un fascio irregolare di luce. Si obbligò a scuotersi, a chiamare.
– C’è… c’è qualcuno?
Dal basso, venne la voce di Saverio: – Chi è?
– Sono il professor Fedeli…
Il custode si avvicinò. Aveva una torcia: prima la puntò in faccia a Fedeli, poi si scusò e la voltò verso il basso.
– Mi scusi, professore, non l’avevo riconosciuta. Ma che ci fa qui?
– Stavo lavorando… quando sono uscito dall’aula era tutto chiuso.
– Ah, mi scusi, mi scusi… strano, io ho fatto il solito giro, ma… Si vede che non l’ho vista… però mi scusi, stava lavorando al buio?

Fedeli biascicò qualcosa a proposito di una lampadina da scrivania e il custode disse che qualcuno gli aveva segnalato una finestra aperta al primo piano. Allora aveva pensato di fare un giro di controllo.
– Sa, ci sono dei disgraziati di allievi che hanno imparato a forzare la serratura delle finestre, io lo ripeto sempre che dovremmo cambiarle… Poi entrano qui di notte a bere, a scrivere sui muri… Perfino la notte di Natale, professore, ma non ce l’hanno una casa quelli?
Mentre tornavano al pianterreno, Fedeli rivelò a Saverio che aveva visto uno di quei ragazzi. Un tipo biondo, magrolino…
– Ah, lo conosco, non è la prima volta che mi fa questo scherzo! – esclamò il custode. – Ma se lo prendo, gliela insegno io l’educazione!

Una delle grandi finestre accanto alla porta principale era spalancata, e la pioggia stava allagando il pavimento. Saverio imprecò fra sé, accese le luci dell’atrio e sprangò la finestra. Poi aprì il portone. Nel frattempo Fedeli stava dicendo che per fortuna il custode era tornato, altrimenti avrebbe dovuto chiamarlo e magari disturbarlo durante il cenone.
– Sono solo le otto e un quarto, professore, non si preoccupi!
Le otto e un quarto. Fedeli aveva l’impressione che fossero passate ore. Alzò gli occhi verso l’orologio dell’atrio e fu allora che notò la scritta. Sulla parete di fondo, spruzzata con uno spray di colore rosso cupo: CHARLIE LOVES SIMO, a lettere cubitali. Saverio seguì il suo sguardo e avvistò pure lui il graffito.
– Disgraziato! Lo sapevo, lo sapevo che quello era entrato per fare casino… ah, ma se gli metto le mani addosso… Non è mica giusto, professore, perché poi quello che deve pulire sono io, tanto per cambiare! Ma lo sa, professore, che… ehi, professore! Tutto bene?
Fedeli stava fissando la scritta, con gli occhi sgranati.
CHARLIE LOVES SIMO.
Non era possibile. Restare chiuso la notte di Natale, passi. L’incontro fortuito con un ragazzo che assomigliava a ciò che lui era stato, passi. Ma che quel ragazzo, casualmente, avesse scritto proprio quelle parole… Dov’era la necessità, la logica, che senso aveva tutto questo?

– Professore, si sente bene?
Fedeli si riscosse. – Sì, sì, non si preoccupi. È lo stress.
– Eh, Natale è così. Ma ora è in vacanza, no? Un po’ di libertà…
Un po’ di libertà. CHARLIE LOVES SIMO.
– Sì, certo, ora sì…
Erano giunti all’ingresso. Saverio lo guardava preoccupato, ma Fedeli lo rassicurò che andava tutto bene. Lo ringraziò per averlo tratto d’impaccio e gli assicurò che gli avrebbe mandato un regalo per sdebitarsi.
– Ma si figuri, professore…
– No, no, ci tengo, davvero. – Gli strinse la mano. – E buon Natale!
– Buon Natale, professore! – Il custode si allontanò, passando dal retro.

Dopo qualche secondo, anche Fedeli aprì l’ombrello e s’incamminò. Ma fatti pochi passi, si fermò. Guardò la mole massiccia del liceo, con la pietra scura e i finestroni ampi, sferzati dalla pioggia. CHARLIE LOVES SIMO. Che cosa significava? Che cosa gli era successo quella sera? Stava leggendo la Medea, poi si era addormentato, poi aveva pensato ai suoi primi anni al liceo, poi…

Uscì lungo la strada principale.
Le vetrine accendevano promesse, tra i fari delle macchine e i lampioni e le mille ghirlande illuminate. La pioggia scivolava dall’ombrello, scendeva giù sul capo, sulla schiena. Il passato e il futuro s’intrecciavano col presente, in maniera incomprensibile, e il professore camminava piano, un passo dopo l’altro, mettendo i piedi dentro le pozzanghere.