Il nostro paese è conosciuto per il senso di pulizia che si respira in ogni suo angolo. Ma come stavano le cose ai tempi di Roma antica? Come si lavava e come curava il suo aspetto la gente che viveva dalle nostre parti? In quale modo si rendevano vivibili le strade delle città, altrimenti intasate di rifiuti ed escrementi?
A queste domande risponde una mostra aperta al Museé romain di Vallon, nel canton Friborgo, intitolata appunto C’est du propre, hygiène et cosmétique à l’époque romaine, curata dalla conservatrice Clara Agustoni e dalla sua équipe, che si appoggia principalmente su ritrovamenti archeologici avvenuti nella regione (Friborgo e Avenches) ma anche su prestiti da Augst e dal Ticino. Accanto alle testimonianze materiali ci sono testi di autori latini, tradotti in francese e tedesco, una serie di aneddoti legati alle tematiche trattate e naturalmente le spiegazioni scientifiche relative ai reperti in esposizione.
Il percorso della mostra parte dal piano terra. Un powerpoint, situato accanto alla grande maquette con la ricostruzione del sito datato III secolo dopo Cristo, illustra le scoperte più recenti che riguardano la dimora di campagna con i suoi magnifici mosaici, sulle vestigia della quale è proprio stato costruito il museo. Se era noto che nel lato nord si trovavano le terme e i bagni privati, è invece una novità che sul lato sud della villa vi era una entrata monumentale con colonne, delle latrine e una fontana decorata in pasta vitrea. Luoghi, non è mai inutile ricordarlo, che erano riservati alle classi privilegiate poiché ben diverse erano le condizioni di vita del popolo, a Roma come nelle provincie. Lavarsi era una necessità anche nel passato, seppure con modalità non sempre simili alle abitudini odierne. Al piano superiore del museo l’argomento pulizia e cura della persona viene affrontato lungo un percorso che allinea quattro stazioni di sosta, in un ambiente che richiama l’atmosfera di un grande bagno, con piastrelle bianche, celesti e blu dipinte sulle pareti.
Si parte con la pulizia mattutina fatta di un veloce risciacquo del volto usando l’acqua di un catino, qualche gargarismo per gola e denti senza utilizzare saponi e dentifrici pure conosciuti all’epoca, per poi passare alla pulizia delle orecchie tramite bastoncini e spatole in osso e in bronzo, trovate anche in scavi archeologici in tutto il mondo romano nelle borse dei medici di allora. Una pulizia superficiale come si farebbe oggidì in baita, insomma.
La seconda tappa ci porta alla cura dei capelli e della barba con la presenza di rasoi, spatole, pettini, pinzette per la depilazione, creme e tinture per capelli che non erano ad esclusivo appannaggio delle donne, come testimoniano gli scritti di autori quali Plinio il Vecchio o Giovenale.
Il terzo capitolo tratta di cosmetici che se non avevano l’importanza economica e culturale che forse hanno oggi, erano comunque di uso comune nelle case dei patrizi, come raccontano ricette tramandate: creme e pomate profumate spalmate con apposite spatole erano indispensabili per idratare la pelle dopo che era stata liberata dall’olio usato per la pulizia tramite salviette e strigìli.
Infine l’argomento profumi e toilette, non meno importante del precedente e ad esso complementare. Qui spiccano le colombine in vetro provenienti da Locarno insieme a balsamari da Avenches, portaprofumi e recipienti zoomorfi di terracotta, specchi e pigmenti per il trucco degli occhi. Un campionario di oggetti che richiama alla mente quelli presenti ancora oggi sulla nostre mensole.
Il viaggio termina con il motto: tutti in bagno! Dietro una porta semitrasparente infatti, sotto lo sguardo di Vespasiano che la tradizione vuole l’inventore dei pissoir (ma la notizia non è confermata da Svetonio), vi è la ricostruzione di una latrina come quella particolare ritrovata in situ a Strasburgo, con sei scanni schiena contro schiena messi al centro del locale, che però non dovete utilizzare essendo i veri bagni da un’altra parte.
Il tema proposto è quello della pulizia di una città dal momento che sulla pubblica via venivano gettati normalmente gli scarti di cucina e vuotati i vasi da notte con urina e feci. Vi erano addetti all’evacuazione quotidiana di questa montagna di scarti, che praticavano già una specie di raccolta differenziata: l’urina andava ai tessitori, ai conciatori di pelli e agli orefici; le feci e altri rifiuti organici finivano invece in campagna come concime. I prodotti alimentari che tornavano in città erano così spesso contaminati da malattie come il verme solitario o peggio; un meccanismo perverso durato secoli e secoli un po’ ovunque e per dirla fino in fondo non ancora universalmente risolto.