Dopo il Premio Nobel per la Letteratura conferitogli nel 2016, non vi è dubbio che molti si siano infine resi conto del peso che la figura di un cantautore quale Bob Dylan ha avuto, in termini di stile narrativo e poetico, non solo sulla musica, ma sull’intera cultura popolare di lingua inglese; meno evidente, però, rimane il contributo fornito dal Bardo di Duluth non soltanto come compositore e storyteller, ma anche come protagonista di performance dal vivo tranquillamente definibili come rivoluzionarie. Certo, il grande pubblico è abituato a identificare l’eccellenza «live» con altri nomi storici della scena rock, noti per il vigore e l’energia assoluti delle loro esibizioni, ad esempio, i sempreverdi Rolling Stones o l’iperattivo Bruce Springsteen.
Eppure, non tutti sanno che, proprio nel pieno della gioiosa ubriacatura musicale degli anni 70, Bob Dylan ha condotto un esperimento dal vivo più unico che raro, definibile come alquanto in anticipo sui tempi nella sua poco convenzionale modernità: la creazione di una specie di anarchico carrozzone rock, popolato da un improbabile assortimento dei più eterogenei ed eccentrici talenti della scena musicale del tempo, uniti in una sorta di zingaresca avventura on the road attraverso l’America. Una carovana circense a cui si accodarono, tra gli altri, la musa e compagna di un tempo Joan Baez e perfino l’ormai appesantito Allen Ginsberg, protagonista di episodi al limite del surrealismo puro.
Benché sia oggi ricordata soprattutto per la pubblicità che diede al caso di Rubin «Hurricane» Carter (il pugile afroamericano ingiustamente accusato di omicidio e scarcerato solo vent’anni dopo, proprio grazie alla mobilitazione pubblica favorita da Dylan), l’avventura della «Rolling Thunder Revue», come venne battezzato l’eterogeneo ensemble, rappresenta in realtà ben più di una stravaganza in spirito seventies, così come le performance di quel periodo si differenziano fortemente da ogni altra esibizione affrontata da Bob nell’arco della sua pur lunga carriera (incluso il celeberrimo Never Ending Tour, intrapreso negli anni 80 e tuttora in corso).
Infatti, sebbene, in ogni show, Dylan si sia sempre distinto per l’abitudine a riarrangiare audacemente i brani del suo repertorio in modo sempre diverso e a seconda dell’ispirazione del momento, tra il ’75 e il ’76 la Rolling Thunder Revue ha visto spingersi ben oltre tale desiderio, conferendo nuova vita alle canzoni (e quasi stravolgendole, anche nei testi) con una sorta di furia rabbiosa, che, ogni sera, ha dato vita a una vibrante cavalcata rock dall’intensità a tratti quasi eccessiva, a cui non era certo estraneo il copioso consumo di cocaina che caratterizzò la lunga tournée; e proprio tale dirompente brama musicale – il personale tentativo di Bob di rivitalizzare il rock contemporaneo – ha reso le performance tratte da quest’avventura irripetibile le più richieste tra tutto il materiale mai circolato sotto forma di cosiddetti bootleg (registrazioni abusive passate di mano in mano tra i fan più accaniti).
Forse anche per questo, la Columbia Records ha oggi deciso di donare ai fan uno splendido cofanetto di ben 14 CD, che permette finalmente una vera retrospettiva antologica di un episodio cruciale nella storia del «vintage rock». Pubblicato in modo da coincidere con la messa in onda su Netflix del documentario realizzato da Martin Scorsese sull’argomento, The Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings non si limita a proporre la solita compilation di brani sparsi, ma indulge piuttosto in un vero lavoro filologico, basato sui nastri completi di cinque concerti tratti dalla prima parte del tour (gli unici a essere stati registrati con apparecchiature professionali).
In più, la vera sorpresa è costituita da ben quattro bonus discs, che rendono il box set indispensabile per ogni vero «dylaniano»: di questi, tre CD offrono registrazioni tratte dalle prove pre-tour effettuate dalla line-up al completo in location intime e informali quali il Seacrest Motel di Falmouth e gli studi S.I.R. di New York, mentre l’ultimo offre una miscellanea di cosiddette rarità (principalmente brani eseguiti solo una manciata di volte, come Jesse James e The Tracks of My Tears).
L’unico limite di questa lodevole operazione discografica sta forse nel fatto che le registrazioni sono incentrate quasi esclusivamente sui set di Dylan, ideatore e indiscusso protagonista della Rolling Thunder Revue; e per quanto comprensibile, tale scelta fa inevitabilmente scivolare in secondo piano gli altri performer coinvolti, tra cui Roger McGuinn dei Byrds, lo storico folksinger Ramblin’Jack Elliott, e la già citata Baez. Eppure, il cofanetto riesce pienamente nell’obiettivo di ricordarci quanto unica e irripetibile l’esperienza della Rolling Thunder sia stata: un ricordo congenito che ogni successiva generazione di rockers reca tuttora nel proprio DNA – e di cui, grazie a questa retrospettiva, anche gli ascoltatori più giovani potranno infine essere consapevoli.