Dumbo, la metafora perfetta

A colloquio con il regista statunitense Tim Burton, in Italia per ritirare il David alla carriera
/ 08.04.2019
di Blanche Greco

«Dumbo è una delle cose preziose della mia infanzia, uno di quegli incontri che non dimentichi perché è un esempio positivo, la metafora perfetta per chi si sente diverso dagli altri per qualsiasi ragione. Quell’elefantino disprezzato e deriso che, grazie proprio alle sue orecchie mostruose riesce a volare e diventa leggiadro e bellissimo, ci ridà la speranza e la gioia. Quante volte mi sono sentito un po’ Dumbo!», ci ha detto Tim Burton, a Roma per presentare il suo ultimo film e ritirare il David di Donatello alla carriera. Sorridendo con quella sua imbarazzata timidezza da teenager, malgrado i sessant’anni, il genio e la fama planetaria, ha continuato, «Amo tutti i miei film, anche se alcuni più di altri, ma Dumbo è troppo recente per giudicarlo! Era una sfida mettere le mani su un classico tanto amato da gente di tutte le età, ma ho accettato di farlo perché lo spirito e la potenza simbolica di questo personaggio sono tali che era importante farlo volare di nuovo in questi tempi difficili dove, troppo spesso si dimentica il rispetto per chi non corrisponde ai canoni correnti».

Alto, magro, una testa di capelli ricci brizzolati, occhiali a mascherina dalle lenti bluastre, vestito come sempre di nero, Tim Burton, amabile e gentile, parla muovendo le mani come fossero farfalle. Ci sembra sempre più somigliante al pallido Viktor, il protagonista di La sposa cadavere (2005), una delle sue più belle commedie «nere» con Nightmare Before Christmas e Edward Mani di Forbice, i film della vena più creativa e originale di Burton, lontana anni luce dai colori pastello e dai tramonti rosati di Dumbo, versione live-action riveduta e reinventata della storia narrata dal famoso cartoon di Walt Disney del 1941.

Un nuovo film, non un remake quello di Tim Burton, ambientato nel 1919, alla fine della Prima Guerra Mondiale nel Circo, un tempo famoso, di Max Medici, un saltellante Danny DeVito, dove nasce un elefantino dalle orecchie talmente grandi che quasi non riesce a camminare senza inciamparvi, Dumbo. «La sceneggiatura di Ehren Kruger mi è piaciuta perché mostra come nel piccolo universo circense non ci sia solo l’elefantino alle prese con la diversità e la solitudine» ha raccontato Burton, «Holt Farrier, interpretato da Colin Farrell, una volta grande cavallerizzo, è tornato dalla guerra senza un braccio, sua moglie è morta e i suoi figli, Milly e Joe sembrano sperduti senza la loro mamma, proprio come Dumbo e saranno loro a prendersi cura di lui. Due storie parallele che s’intrecciano, personaggi che diventano una famiglia in grado di affrontare le difficoltà della vita». Spariscono così gli animali parlanti del cartoon di Walt Disney, e questa volta sono gli esseri umani a rendere la vita grama a Dumbo, soprattutto Michael Keaton, gaglioffo impresario di Dreamland, che vuole a tutti i costi mettere le mani sul «cucciolo speciale» che, grazie alle tecniche digitali, ci appare come un vero elefantino, non fosse per le orecchie spropositate e gli occhi simili a due laghetti. «Qualcuno ha avuto da ridire sull’azzurro degli occhi di Dumbo, che anche per noi sono stati la preoccupazione maggiore», ci ha confessato Burton, «Dumbo è una creatura candida e semplice che non parla, perciò i suoi occhi dovevano essere lo specchio di sentimenti ed emozioni. Non credo di aver mai speso tanto tempo sugli occhi di nessuno dei miei personaggi, anche perché spesso non li avevano!».

Anche l’imponente ricostruzione, sul set, del Circo e quella ancora più sfarzosa di Dreamland, hanno richiesto molta cura: «Avevo a disposizione grandi attori come Keaton, DeVito ed Eva Green, cui si è aggiunto Colin Farrell, e infine il protagonista Dumbo, l’unico che però non c’era, perché sarebbe stato una creazione digitale. Era quindi importante che il cast sentisse di essere concretamente nel luogo dove tutto sarebbe successo, in modo da poter sviluppare dei legami da vera famiglia circense». Burton ha aggiunto, «Le tecniche cambiano continuamente e ti permettono di realizzare film straordinari, tuttavia io amo le tecniche di una volta, l’animazione, la stop motion». 

Dumbo ha avuto a disposizione un set enorme, popolato da migliaia di comparse tra spettatori in costume, artisti circensi, bande musicali e ballerini e se il Circo di Max Medici ci appare un po’ scalcagnato e malinconico, simile a quelli dell’infanzia di Tim Burton, Dreamland è un’orgia di opulenza e di fantasia dove emergono, tramutati in bolle di sapone, gli elefanti rosa del Dumbo di Walt Disney, ma anche gli omaggi al cinema: dalle Ziegfeld Follies, al Più grande spettacolo del mondo, colossal di Cecile B. De Mille, che secondo Burton è stato «i dieci comandamenti e la Bibbia del circo di ogni tempo». E in questa seconda parte di Dumbo, che non esisteva nell’originale, Burton si lascia andare e realizza alcune delle sequenze da brivido più spettacolari del film, che non è più la caustica e divertente commedia di Walt Disney, ma un melò con «happy end» che piacerà sicuramente ai bambini adepti di Disneyland.