Dimmi come vivi, capirò come pensi

Al Vitra Design Museum di Weil am Rhein sono esposti venti straordinari modi di vivere
/ 15.06.2020
di Luciana Caglio

È un identikit che raramente inganna. Varcando le soglie di un’abitazione ci s’inoltra in un territorio privato ma rivelatore. Mobili, suppellettili, illuminazione, colori compongono un ambiente che la dice lunga sulla personalità del proprietario, o inquilino che sia. Ecco la casa ordinata, spoglia, che sottintende freddezza e calcolo. Mentre quella caotica, troppo piena, allude a fantasia e improvvisazione. A sua volta, l’arredo tradizionale, con pezzi d’epoca pregiati conferma un bisogno di stabilità, non disgiunto a una dose di esibizionismo sociale. Qualcosa che, in forme diverse, si ritrova nella casa del patito di modernità, che testimonia orgogliosamente il suo fiuto per le tendenze «in», sedili magari scomodi ma attuali. E via enumerando scelte non soltanto volute, ma obbligate. Infatti, l’ambiente domestico, se riflette sensibilità e necessità individuali, non sfugge agli umori del momento, in gergo lo «Zeitgeist». Insomma, racconta pagine di storia.

A quest’intreccio fra privato e pubblico, fra gesti del vissuto quotidiano e invenzioni artistiche e tecnologiche esterne, è dedicata la mostra, in corso al Vitra Museum di Basilea (per l’esattezza a Weil am Rhein, appena oltre frontiera). S’intitola Home Stories: 100 Years, 20 Visionary Interiors: l’inglese è ormai d’obbligo per un evento di portata internazionale. Qual è una rassegna, allestita in una sede già di per sé prestigiosa (porta la firma di Frank Gehry), che illustra un secolo di cambiamenti urbani, sociali ed estetici decifrando i segni lasciati nelle abitazioni. Da qui l’originalità di una rievocazione storica, affidata non ai monumenti, bensì a edifici che ospitano la vita di tutti ogni giorno. Cioè, la casa promossa protagonista, come si è verificato, appunto, nell’ultimo secolo, a partire, e la coincidenza non è casuale, dalla nascita del Bauhaus, a Weimar, nel febbraio 1919. Quando, con l’incontro fra arte, artigianato, architettura, urbanistica, tecnica, socialità, economia si aprì una nuova concezione dell’abitare: con effetti, sul piano mondiale, ispirati sia ai criteri estetici del design, sia all’utopia della casa popolare bella e funzionale.

Al di là delle circostanze economiche e politiche e delle correnti creative, rimane decisivo il ruolo dell’utente dello spazio domestico. Quell’interno in grado di soddisfare esigenze materiali e intellettuali, buon gusto e ambizioni, che diventa «Home» o «Heim», termine intraducibile: dove, insomma, ci si sente completamente a proprio agio. «No place like Home», per dirla con Johnatan Donavan, fotografo londinese, impegnato in un’operazione a favore di abitazioni sociali accoglienti. Ma è anche il luogo che mette alla prova la capacità d’interpretare le lezioni del design, del cubismo, della pop art e di usare al meglio gli strumenti offerti dal mercato, ingigantito dall’industrializzazione e dal consumismo. Soprattutto dopo l’arrivo dell’Ikea, che ha segnato una svolta epocale: con l’arredamento fai da te, oggetto di consumo popolare, che ha sostituito il mobile perenne, tramandato di generazione in generazione.

Ma, lo dice il titolo, il Vitra propone «Interni visionari», che rappresentano le punte più alte e significative nell’arte di abitare. Ecco, allora, le residenze di privilegiati, personaggi che disponevano dei mezzi finanziari per farsi la casa più bella, e non soltanto. Qui più che mai, si manifesta quel sesto senso indispensabile per captare le cose giuste da associare accortamente, in uno spazio che diventa esemplare. Non si tratta, sia chiaro, delle dimore lussuose, di superricchi, bensì di ambienti dove si respira il presente e persino il futuro. Lo lascia intendere, del resto, il manifesto della mostra, con l’immagine della «Casa de vitro», opera di Lina Bo Bardi, nel 1953, a San Paolo del Brasile: una donna appoggiata a una parete trasparente che annulla la separazione interno-esterno. Un moderno ritorno all’antico: le ville romane includevano i giardini.

Questa rassegna non si limita a esporre fotografie, grafici, didascalie, non teorizza, rivolgendosi a specialisti e addetti ai lavori, come avviene in tante mostre tematiche. Qui, invece, si riesce a coinvolgere il visitatore, senza distinzione di categoria, in un’esperienza diretta. E lui o lei si sente chiamato in causa attraverso continui riferimenti al proprio habitat personale e familiare.

Sotto il suo sguardo, sfilano fedeli ricostruzioni di luoghi, simbolici, con cui confrontarsi: salotti, atri, stanze da letto, cucine, uffici che ospitarono la quotidianità di protagonisti, nell’ultimo secolo, della cultura, dello spettacolo, del costume. Dove affiora l’intuito geniale di visionari che, proprio negli interni, trovarono l’ambito in cui esprimersi, interpretando del resto un’emergente necessità. Mentre, fuori, gli edifici si adeguavano al rigore razionalista, dentro si dava spazio a estri decorativi in libertà. Da qui la funzione rappresentativa che, nel corso del ’900, doveva spettare sempre più agli interni. Affidati a nuovi professionisti, l’architetto degli interni, l’arredatore, lo stilista.

Al cospetto degli ambienti, creati da questi venti pionieri, per il pubblico si apre una sorta di gioco «chi-cosa»: individuare, cioè, il legame tra gli oggetti e chi li ha scelti. Un rapporto che, in alcuni casi, balza subito all’occhio. Ecco, esempio eloquente, la «Silver Factory», ricavata da un «loft», nel Soho di New York, anni ’60: non poteva che appartenere a Andy Wahrol. A sua volta, la «Villa Arpel», a Nizza, ultramoderna con servizi automatizzati, offrì la materia prima al suo inquilino, Jacques Tati, regista e attore che, negli anni ’50, inventò Monsieur Hulot, parodia del cittadino sopraffatto dalla tecnologia.

All’opposto, la «Villa Tugendhat», a Brno, Cecoslovacchia, progettata da Mies van der Rohe illustra la piena sintonia fra l’architetto e il proprietario, entrambi convinti esponenti del modernismo. C’è, poi, chi guarda al futuro, con prospettive persino inquietanti. Ecco la «Nakagin Capsule Tower», abitazione dell’architetto Kisho Kurokawa, destinata all’«homo movens», un nomade urbano che, quando si ferma, si rifugia in un loculo di 8 mq.

Ben diversa l’atmosfera di «Adhcombe», a Wilshire, residenza di Cecil Beaton, fotografo per «Vogue», coreografo e arredatore, affascinato dal barocco, dall’esuberanza ornamentale, dentro e fuori casa. Come avviene nell’appartamento, a Monte Carlo, di Karl Lagerfeld, lo stilista, recentemente scomparso, che aveva guidato con successo la Maison Chanel. E, in pari tempo, figura di spicco del postmoderno. Apparteneva al gruppo milanese «Memphis Design», nato negli anni 80, argutamente controcorrente. E la sua abitazione, tutta colori e mobili simili a giocattoli, ne reca l’impronta.

È, insomma, un continuo succedersi di situazioni contrastanti all’insegna del comune denominatore: la nostra quotidianità, raccontata dalla casa.

Dove e quando
Home Stories: 100 Years, 20 Visionary Interiors, Vitra Design Museum, Weil am Rhein (D). Fino al 28 febbraio 2021. www.design-museum.de