Bibliografia

Claudio Calò, La sfilata come opera d’arte, Einaudi, Torino 2022.


Dibattito intorno alla moda che crea nuovi formati

La sfilata come opera d’arte, il nuovo saggio di Claudio Calò, riflette sul rapporto inquieto tra haute couture e arte
/ 02.01.2023
di Emanuela Burgazzoli

La grande mostra a Parigi che qualche mese fa ha visto gli abiti di YSL disseminati in alcuni grandi musei della capitale francese per celebrare il sessantesimo anniversario della prima collezione sfilata a suo nome, ha segnato da una parte la definitiva consacrazione dello stilista, dall’altra ha riportato l’attenzione sullo statuto della moda come arte, un intreccio che affonda le sue radici nelle Avanguardie storiche, dai balletti russi di Diaghilev con i costumi realizzati da artisti fino agli abiti «antineutrali» dei futuristi che dovevano essere aggressivi, dinamici, semplici e asimmetrici. Non è la prima volta che gli abiti di grandi stilisti entrano nei musei d’arte; è toccato a Issey Miyake, a Gianni Versace e allo stesso Yves Saint-Laurent, che negli anni Sessanta aveva firmato una collezione di abiti ispirati al geometrismo di Mondrian.

A lui l’onore nel 1983 al Metropolitan di New York della prima mostra consacrata a uno stilista vivente; un punto di svolta preannunciato nel 1982 da una storica copertina di ArtForum che ritraeva l’immagine di una modella in un abito Miyake. Una scelta che innescò un vivace dibattito, con gli scettici che si affrettarono a sottolineare la natura commerciale della moda, che doveva restare un prodotto industriale. Del resto nel 2000 la retrospettiva su Armani al Guggenheim di New York sollevatò critiche per il suo carattere commerciale, con un allestimento che rendeva le sale simili a una boutique. Ma ormai si erano aperte nuove possibilità che vedevano nel rapporto tra arte e moda un potenziale di creatività che trascende dal genere espressivo per produrre quello che Germano Celant definisce «un vortice iconoclasta»; il celebre critico aveva curato nel 1996 per la  Biennale di Firenze un evento dal titolo Il tempo e la moda che includeva sette progetti realizzati da coppie di artisti e stilisti (Damien Hirst-Miuccia Prada, Tony Cragg-Karl Lagerfeld, Mario Merz-Jil Sander, ecc).

Claudio Calò ne La sfilata di moda come opera d’arte aggiunge un nuovo tassello a questa lunga storia, analizzando l’evoluzione di «quel grande spettacolo funzionale al marketing e strumento di vendita» che è la sfilata di moda, divenuta a un certo punto vera e propria opera d’arte; «fantasia celebrativa» che con il duo olandese Viktor e Rolf raggiunge nuove potenzialità: negli anni Novanta i due stilisti trasformano la sfilata in una vera esposizione d’arte, dove i corpi delle modelle sono avvolti nei quadri, che vengono alla fine smontati e allestiti dai due designer. Sul fronte dell’arte l’americana Vanessa Beecroft compie, si potrebbe dire,  un’operazione speculare, con installazioni composte da modelle nude. Se la moda è una riflessione sul corpo, la sfilata ne è il momento culminante: uno dei padri della svolta pop della moda, con l’avvento delle supermodelle, è stato Gianni Versace nel 1991. Al genio di Versace si può accostare Galliano, uno «dei sommi alchimisti della moda», divenuto famoso per la mise en scène delle sue sfilate dove c’è un continuo gioco di citazioni, in vero spirito postmoderno: poteva accostare la belle époque alle donne Masai, l’antico Egitto al modernismo di Avedon.

La moda in questo senso è un «business cannibale», in grado di assorbire tutto ciò che la circonda per rinnovarsi. E la pandemia, osserva Calò, ha determinato un’accelerazione verso ciò che viene chiamata la «transmoda», che esplora ormai tutti i formati disponibili, dotata di un’intelligenza orizzontale, tipica di una cultura visiva degli anni Duemila; una cultura che per Jean Baudrillard «produce immagini in cui non c’è niente da vedere», mentre altri individuano nel medium della moda una possibilità di individuare scorciatoie per raggiungere il proprio linguaggio visivo, sovvertendo consuetudini grazie anche alle nuove tecnologie. Oggi la moda è sempre più «veloce e atomizzata», «insofferente verso le gerarchie», distrugge appunto mode e marchi in modo quasi istantaneo ed è caratterizzata da una creatività che Calò definisce «diffusa, permutativa, remota e autoportante».

Un esempio emblematico di questa nuova era sono i marchi «che si aprono a pratiche di hackeraggi», includendo nelle proprie collezioni ufficiali i falsificatori, come nel caso di Gucci che ha prodotto dei veri-falsi-veri, ma anche condivisioni e metamorfosi con Balenciaga, tanto da far comparire in una sfilata «fantasma» una borsa deturpata dalla scritta «This is not a Gucci Bag», con un evidente richiamo a un celebre dipinto di Magritte.

E se la moda a volte può parlare senza mostrare abiti, anche l’arte oggi può esistere al di là della dimensione fisica, come avviene per l’arte digitale, venduta oggi sottoforma di NFT. La modalità digital-virtuale si è trasformata nell’unico mezzo a disposizione per comunicare, tanto che il video (della sfilata) è ormai l’intero evento, non più soltanto la ripresa di un evento fisico, che però in un certo senso riduce la libertà di scelta dello spettatore. Nel suo saggio Calò non risolve la questione se la moda «sia da iscriversi tra le arti, le arti applicate o il puro business», ma fornisce una dettagliata ricognizione dell’evoluzione della moda «come creatrice di nuovi formati che riflettono la cultura e il modo di comunicare delle diverse età».

E come accade per l’arte, anche nella moda una delle sfide future risiede nella dicotomia digitale-fisico, nella tensione tra questi due poli, attorno ai quali si giocherà la partita estetica (ed economica). In questo processo la sfilata, che ha assunto forme molto diverse nella storia, oggi è diventata «un catalizzatore dalla natura liquida e vischiosa che sublima e si mimetizza nei generi».