Di scritture, pensate o digitate

Il dibattito intorno all’insegnamento della lingua italiana Oltralpe assume toni sempre più accesi: ma qual è lo stato di salute generale della lingua italiana? Lo abbiamo chiesto al linguista Luca Cignetti
/ 31.10.2016
di Simona Sala

Negli ultimi anni il dibattito intorno all’insegnameno della lingua italiana in Svizzera si è fatto spesso acceso. Sempre più cantoni infatti nell’ambito dell’insegnamento delle lingue a scuola preferirebbero dare la priorità a quella che, al di là di ogni ragionevole dubbio, è ormai la lingua franca, l’inglese. Da più fronti ci si è scagliati contro queste iniziative, da una parte nel tentativo di non minare ulteriormente la coesione nazionale, sempre più spesso sotto pressione, dall’altra parte forse per garantire alla lingua italiana una propria dignità, ma soprattutto una presenza Oltralpe in quanto lingua nazionale. Nello sforzo di mantenere la possibilità di studiare l’italiano nei licei e negli atenei elvetici, è a volte sfuggito di vista il livello delle reali competenze linguistiche degli italofoni svizzeri. A più riprese infatti i dati PISA hanno evidenziato carenze linguistiche e una mancanza generale di competenze di cui andare tutt’altro che fieri.
Per comprendere l’entità di questo fenomeno ci siamo rivolti a Luca Cignetti, docente-ricercatore e responsabile dell’Unità di italiano al DFA-SUPSI.

Luca Cignetti, un tema spesso al centro dell’attenzione dell’opinione pubblica riguarda l’uso in italiano di espressioni introdotte dalla lingua inglese, presente in molti ambiti della nostra vita.
Si tratta di un fenomeno trasversale a tutta l’area dell’italofonia. Credo che gli anglicismi non siano da sottovalutare, ma non devono costituire un elemento di preoccupazione, poiché oggi nel vocabolario non superano il 2%. Sono comunque lievemente aumentati negli ultimi anni, soprattutto per le nuove tecnologie e anche certi abusi (pensiamo agli anglicismi di lusso o a parole legate a mondo della moda). Il lessico italiano non è comunque in crisi e questo fenomeno non è nuovo, pensiamo ad esempio ai francesismi nel 700.
L’influenza delle tecnologie sull’italiano può essere anche positiva: grazie ai media digitali la lingua scritta è tornata ad essere centrale nella pratica quotidiana. Alcuni studi risalenti agli anni ’80 dimostrano come fino a trent’anni or sono da adulti si scrivesse raramente, limitandosi alle cartoline o alla lista della spesa.
A partire dal 1992, anno del primo SMS, la scrittura è gradualmente tornata a essere un elemento fondamentale della comunicazione sia attraverso i social o le applicazioni, sia nella vita professionale con le e-mail. 

Quali sono allora gli aspetti a cui si dovrebbe guardare con più preoccupazione?
Per quanto riguarda gli studenti in uscita dalla scuola media superiore e quelli universitari preoccupano per esempio le competenze grammaticali e lessicali. Alcuni studi di Tullio De Mauro evidenziano il fenomeno dell’analfabetismo di ritorno: al termine della scuola non si usa più la lingua scritta e parlata e il rischio è di tornare a un livello di scolarità molto bassa. I dati italiani evidenziano un analfabetismo di tipo funzionale: le persone non sono in grado di leggere e capire messaggi abbastanza semplici. In Italia questo fenomeno arriva a toccare quasi il 70% della popolazione.
Per quanto riguarda la Svizzera ci si deve rifare ai dati PISA, dove sebbene nell’insieme il risultato sia superiore a quello italiano, la realtà ticinese in quanto a competenze linguistiche è purtroppo allineata a quella italiana.

Con quali strumenti è possibile verificare la competenza linguistica?
Per gli studenti c’è appunto il programma PISA (Programme for International Student Assessment), che serve a valutare il livello di istruzione dei ragazzi nei paesi industrializzati. Per le persone in età lavorativa, invece, esiste l’indagine PIAAC (Programme for International Assessment of Adult Competencies). Questo studio ha assegnato ai lettori cinque gradi di competenza. Il primo grado corrisponde al livello più basso, quello dell’analfabetismo strutturale, in cui le persone non sanno leggere. Al secondo livello vi è l’analfabetismo funzionale, dove le persone sanno leggere senza tuttavia comprendere bene il testo. Il terzo livello corrisponde a una competenza più avanzata, poi man mano che si sale si raggiunge un livello soddisfacente. E appunto il 70% degli italiani in età lavorativa non arriverebbe al terzo livello. 

Ma questi dati sono il risultato di un peggioramento? 
Il dato è sicuramente serio e preoccupante, ma va analizzato da un punto di vista storico, basti pensare che nel 1951 in Italia quasi il 60% della popolazione era privo della licenza delle scuole elementari.

Dal punto di vista della prevenzione sono state messe in atto delle misure?
Esistono da tempo gruppi di studio che si occupano di sensibilizzare gli insegnanti. Mi riferisco in particolare all’attività del GISCEL (Gruppo di Intervento e Studio nel Campo dell’Educazione Linguistica), che fra propri fondatori annovera lo stesso De Mauro e che si occupa di ricerca nell’ambito dell’educazione linguistica. Il GISCEL, di cui esiste un gruppo anche in Ticino, ha tra i suoi obiettivi anche quello di stimolare un dialogo tra la ricerca universitaria e il mondo della scuola. 

Cosa si può fare per migliorare la qualità dell’italiano a scuola? 
Al DFA della SUPSI ci siamo confrontati con un risultato che riguarda le competenze di scrittura degli studenti della scuola dell’obbligo del canton Ticino, e l’abbiamo fatto attraverso un progetto finanziato dal fondo nazionale che si intitola TIscrivo ed è coordinato da Simone Fornara. Abbiamo raccolto il più grande corpus oggi a disposizione di scritti scolastici di bambini delle scuole elementari (III e V elementare) e di studenti delle scuole medie (II e IV media).
Abbiamo riunito circa duemila testi, poi li abbiamo studiati dal punto di vista degli aspetti linguistici e della qualità dei contenuti. Il risultato è mediamente soddisfacente. Il progetto ci ha permesso di identificare alcuni elementi su cui lavorare come l’ortografia, la frequenza di alcuni errori (uso degli accenti o uso degli apostrofi), l’uso delle doppie (che può comunque essere legato alla varietà di italiano del nord tipica del Canton Ticino) e il lessico. 

E una volta identificati gli errori più frequenti come si procederà?
Sicuramente ci sono enormi margini di miglioramento, e intendiamo progettare degli interventi didattici. Prima però dobbiamo continuare nell’analisi dei dati per comprendere la distribuzione degli errori nelle diverse aree geografiche del nostro cantone. Sarà anche interessante, una volta identificato un determinato errore, osservare come questo evolva. Abbiamo appena presentato il risultato della prima parte del progetto, che finirà nel dicembre del 2017. Dopo avere raccolto i dati costruiremo anche un lessico dell’italiano nella scuola nel canton Ticino.

Oltre a TIscrivo vi sono altri progetti legati alla lingua italiana?
Abbiamo appena cominciato un nuovo progetto «Scripsit» (Scrivere come risorsa professionale nella Svizzera italiana) che coinvolge diversi dipartimenti della Supsi. Vogliamo promuovere l’importanza della scrittura come strumento formativo e come competenza professionale avanzata. La scrittura non è infatti utile solamente per i docenti, ma è importante che anche un’infermiera, un economista o un esperto di sanità o di informatica siano in grado di scrivere in modo efficace in lingua italiana. Da una parte ci sta a cuore la difesa dell’identità culturale dall’altra sappiamo che la scrittura avanzata, argomentativa e funzionale è strumento di elaborazione del pensiero. Il professionista con questa competenza avrà una marcia in più.
Lavoreremo prima di tutto sulle produzioni degli studenti, raccogliendo le loro tesi. Dopo avere costruito un corpus analizzeremo i problemi linguistici e argomentativi. Vi saranno poi dei questionari per i docenti della Supsi e per gli studenti. Tutto questo ci permetterà di identificare gli errori e di progettare interventi didattici ad hoc e corsi di formazione. Vorrei proporre la continuazione del progetto su scala nazionale. Vorrei infine aggiungere una cosa: abbiamo parlato di scrittura, ma in generale non si può separare l’ambito della scrittura da quello della lettura. Si deve dunque lavorare sempre su due piani.

L’incremento della scrittura a lungo termine potrà avere dei risvolti positivi sulla qualità della lingua italiana?
Da un punto di vista quantitativo il fenomeno delle scritture digitate o dell’e-taliano è positivo. Dal punto di vista della qualità il discorso è più complicato, perché questo tipo di scrittura è breve, frammentaria e spesso poco corretta, e avviene in tempo reale.
Il rischio è che diventi la modalità d’uso esclusiva della lingua scritta, a scapito delle modalità «tradizionali», che prevedono una scrittura pianificata e strutturata in grado di favorire l’approfondimento. L’insegnante potrebbe partire dall’interesse per questa scrittura per poi costruire con i ragazzi una competenza più ampia legata a testi più pianificati e strutturati.
Ogni strumento di comunicazione ha caratteristiche proprie, in passato con gli SMS le limitazioni erano maggiori, mentre con Whatsapp, poiché non ci sono limiti e avviene in tempo reale, la scrittura è ulteriormente frammentata. Si scrive quello che si pensa, come si parla, e il risultato è un ibrido tra lo scritto è il parlato.   

L’antico proverbio «Verba volant scripta manent» diventa un po’ ambiguo.
Questo è uno dei grandi rischi delle nuove tecnologie, occorre quindi costruire una consapevolezza dal punto di vista dei ragazzi, altrimenti gli esiti possono essere tragici. L’uso di internet per la ricerca è fondamentale, ma le fonti vanno selezionate con cura. Si tratta inoltre di tecnologie che si diffondono molto rapidamente. Recentemente un’indagine ha mostrato come la radio abbia impiegato circa 70-75 anni per arrivare a un miliardo di persone, la tv 55, lo smartphone e il tablet solamente 5.
Tecnicamente poi i giovani sono ottimi fruitori e quindi occorre affrontare una dinamica mai vista prima: le nuove generazioni sanno utilizzare questi strumenti da un punto di vista «tecnico» meglio di noi e questo è un cambiamento di paradigmi interessante. Questo però troppo spesso non si accompagna alla consapevolezza circa la diffusione globale di messaggi e testi nella mediasfera, con conseguenze a volte drammatiche.

L'ITALIANO NEL NOSTRO CANTONE

Sicuramente vi siete confrontati anche con il fenomeno degli elvetismi, termini italiani presenti solamente in Svizzera?
Quello degli elvetismi è un fenomeno interessante e comprende varietà molto diverse. Si passa dall’italiano parlato in Ticino e nelle valli italofone dei Grigioni a quello parlato negli altri cantoni (e dunque legato all’immigrazione dall’Italia), senza tralasciare l’italiano appreso da chi parte da un’altra lingua.
L’italiano che si parla in Ticino è una varietà di italiano regionale, di cui esistono equivalenti in altre regioni italiane, ed è in generale il risultato dell’influenza del dialetto sulla lingua. In Ticino rispetto all’Italia vi sono però anche delle differenze di tipo istituzionale, di stili di vita, e alcuni concetti e oggetti sono legati a una realtà diversa poiché ci troviamo in uno Stato diverso. Ne sono esempi le espressioni come «cassa malati» (in Italia «assicurazione malattia»), «Consiglio federale» o «dipartimento» (che in Italia può riferirsi all’università, ma in Ticino ha anche il significato di «ministero»).
Non possiamo poi dimenticare l’influenza delle altre lingue nazionali sull’italiano del Ticino, riscontrabile nei «prestiti», risultato dell’influsso del tedesco e del francese: pensiamo a «trottinette», o a «buralista». Alcune parole, a causa della loro presenza nell’italiano, nel francese e nel tedesco, sono chiamate triplette panelvetiche: autopostale («autopostale» in francese e «Postauto» in tedesco) ne è un esempio.

I ticinesismi sono dunque un fenomeno alquanto articolato.
Certo, è un fenomeno complesso. In particolare alcuni studiosi distinguono tre tipi di ticinesismi. Ci sono quelli assoluti (ad es. «corso di ripetizione»), ossia parole che non esistono in Italia perché non vi è un concetto corrispondente. Seguono i ticinesismi semantici, dove in Italia la parola esiste, seppur con un altro significato (es. «vignetta», «patrizio»), e infine i ticinesismi lessicali, dove esiste il concetto, ma non la parola corrispondente (es. «trattanda»).

Come deve comportarsi l’insegnante di italiano di fronte a questi fenomeni?
È una domanda che gli studenti mi fanno spesso. Nella scuola si sentono parole che non esistono o che hanno un significato diverso nell’italiano standard, come «plenum», «mappetta», «classatore», «nota» o «esperimento», oppure costruzioni sintattiche proprie della varietà ticinese (ad esempio quella del verbo «bocciare»: in Svizzera si boccia un esame, mentre in Italia si viene bocciati). Si tratta di usi da non considerare errati, che è però necessario usare sapendo che sono legati alla varietà regionale. L’insegnante sceglierà quali usare a dipendenza del contesto, la scelta deve essere sempre consapevole.