Si sa, negli ultimi quindici-vent’anni l’idea stessa di «originalità compositiva» sembra essersi per lo più eclissata dalla scena pop-rock angloamericana. Eppure, malgrado non accada spesso, a volte capita ancora di imbattersi in sforzi discografici che, seppur non contraddistinti da eccessiva audacia stilistica, mostrano comunque un notevole vigore espressivo e lirico: l’esempio più recente è la nuova opera solista di Ezra Furman, trentunenne performer americano (già leader del quartetto indie rock Ezra Furman and the Harpoons), oggi intenzionato a far rivivere in musica i fasti narrativi della letteratura di genere pulp, ispirandosi a maestri quali il grande William Burroughs e intessendo atmosfere musicali reminiscenti della scuola hard-boiled.
Questa sua nuova e azzardata opera, dall’esotico titolo di Transangelic Exodus, si presenta come un concept album dalla trama, in realtà, degna di una dime novel dell’epoca transgender: una storia d’amore tra un «normale» essere umano e un angelo dalle grandi ali, entrambi perseguitati dal governo a causa di un legame che il sistema considera innaturale e illegale, e quindi costretti a una disperata fuga attraverso l’America. La vicenda si dipana così attraverso tracce che passano da un sound quasi hard rock (e, in diversi casi, dagli accenti perfino punk), fino ad atmosfere delicate rievocanti il più classico pop anni 90, in un continuo gioco di citazioni stilistiche e musicali che accompagnano la determinazione dei protagonisti – i quali, nelle liriche, parlano in prima persona – a rischiare la propria vita e incolumità personale pur di continuare a godere del grande sentimento che li unisce («non mi importa se ci rimetto le gambe o la vita, / mi sono costruito una casa dentro i suoi occhi e non intendo lasciarla»).
In effetti, musicalmente parlando, il disco sembra costituire quasi una sorta di compendio del rock angloamericano degli ultimi quarant’anni, «rimasticato» e traslato dall’eccentrica reinterpretazione di Ezra – al punto che, tra un brano e l’altro della tracklist, vi sono ampie differenze stilistiche: ciò è evidente fin dalla traccia d’apertura, l’energica Suck the Blood from My Wound, reminiscente di molto rock internazionale, dagli exploit anni 70 del Patti Smith Group al più tardo britpop di band quali Embrace e Manic Street Preachers; per contrasto, l’inciso di Driving Down to L.A. offre invece più di un evidente punto di contatto con il materiale solista di David Byrne, ex cantante dei Talking Heads – benché, pur all’interno della medesima canzone, il ritornello sembri invece ricordare il glam rock più vintage, nonché certo punk dello stesso periodo.
Una dicotomia riscontrabile anche in pezzi duri come il nichilista No Place, a cavallo tra il rock imbizzarrito di Iggy Pop e le atmosfere più dark di band come Cure e Placebo, o negli efficaci e trascinanti The Great Unknown (che, di nuovo, deve più di qualcosa a David Byrne) e Maraschino-Red Dress $8.99 at Goodwill. Ma altri pezzi rifulgono invece di una delicatezza struggente e sincera, come ad esempio avviene con il solenne God Lifts Up The Lowly, dall’ottimo accompagnamento a base di archi (apprezzabile anche in un pezzo più uptempo come l’irresistibile Love You So Bad), e con i lenti Compulsive Liar e Psalm 151, non troppo dissimili da classiche ballate intimiste di stampo cantautorale.
Al successo e alla disinvoltura di una simile varietà di generi e sonorità contribuisce non poco anche la versatilità dell’intonazione vocale di Furman, che, a tratti roca e intensa, suona come quasi disperata, e può considerarsi degna di cantanti dal timbro particolarmente rauco del calibro di Shane MacGowan e Tom Waits; del resto, l’influenza di quest’ultimo si fa particolarmente evidente in diversi momenti del CD – su tutti, in tracce come From A Beach House e Come Here Get Away From Me, che potrebbero provenire direttamente da album quali Swordfishtrombones o il celeberrimo Rain Dogs.
In effetti, l’unico vero limite di quest’opera risiede proprio nelle continue citazioni stilistiche che ne popolano ogni brano, e che sembrano fare di Furman una sorta di «bigino vivente» del pop-rock di lingua inglese; dalle pressoché onnipresenti distorsioni vocali agli inserti audio cinematografici, l’innegabile estro creativo di Ezra sembra soffrire di una commistione di generi e stili che rende difficile comprendere quale sia davvero la firma personale di questo camaleontico performer. Ciononostante, il disco mostra una forza emotiva non da poco, in grado di animarne i testi visionari e i toni tormentati e struggenti, dando così vita a un’esperienza di ascolto dalla grande carica emotiva: il che, dopotutto, al di là del semplicistico intrattenimento, dovrebbe essere il vero scopo della musica popolare di spessore – ovvero, quello di raccontare storie in grado di coinvolgere profondamente l’ascoltatore attraverso una sapiente unione tra parola e musica. In questo senso, Furman è già, a modo suo, un autentico professionista.