Depositi di prestigio a caro prezzo

Si conclude il nostro giro d’orizzonte sulle implicazioni delle nuove realtà museali svizzere (terza e ultima parte)
/ 22.11.2021
di Simona Sala

Tra gli argomenti da cui hanno avuto origine le vivaci polemiche che hanno segnato l’apertura della nuova sede della Kunsthaus di Zurigo vi è il fatto che il nuovo imponente edificio che si affaccia sulla Heimplatz sia stato sostanzialmente costruito per ospitare tre collezioni private che il museo ha ricevuto in deposito. Oltre alla già citata e ormai ben nota collezione Bührle, l’edificio progettato da Chipperfield ospita infatti le collezioni costituite nel corso degli anni da altri due ricchi imprenditori svizzeri: Werner Merzbacher e Hubert Looser.

Il termine deposito, oltre a designare gli spazi fisici in cui sono normalmente conservate le opere quando non sono esposte, viene utilizzato in ambito museale per indicare il prestito a lungo termine di un’opera d’arte da parte di un privato o di un’altra istituzione. Si tratta di una pratica diffusa in tutto il mondo e in uso ormai da molto tempo, che permette ai musei di completare o di integrare le proprie raccolte senza che vi sia la necessità di un passaggio di proprietà. Questa pratica, però, come sa bene ogni direttore di museo, richiede anche una serie di attenzioni e cautele e deve essere limitata all’essenziale soprattutto quando si tratta di istituzioni pubbliche. Nel caso della Kunsthaus è proprio l’alto numero di opere ricevute in deposito e il loro enorme valore economico a porre interrogativi complessi sul piano culturale ed etico e a innescare problemi di non facile soluzione dal punto di vista gestionale.

Se è infatti del tutto evidente che grazie a queste opere, la Kunsthaus può aumentare la propria attrattività e godere, nella negoziazione dei prestiti per le esposizioni temporanee, di un maggior potere contrattuale, va però anche ricordato che l’istituzione museale, come avviene del resto sempre nel caso di depositi, deve farsi carico di tutti i costi connessi alla loro gestione. Per la sola collezione Bührle, tenendo conto che il suo valore complessivo è stimato intorno ai 3 miliardi di franchi, la Kunsthaus dovrà, ad esempio, pagare un premio assicurativo annuo di circa 2 milioni. Se a questo aggiungiamo i costi legati alla conservazione e alla sicurezza delle opere e se teniamo conto che anche le altre due collezioni private che il museo ha ricevuto in deposito sono particolarmente rilevanti sia dal punto di vista numerico sia economico, si può forse capire l’enorme sfida con cui si troverà confrontato nei prossimi anni il principale museo d’arte svizzero per mantenersi in una situazione di equilibrio finanziario.

Mentre una parte di questi costi sarà coperta attraverso un aumento di 5 milioni di franchi del budget annuale, la necessità di mantenere una quota di autofinanziamento pari almeno al 50% ha già portato a innalzare di 100’000 unità il numero di visitatori che si dovranno raggiungere il prossimo anno e porterà, quasi inevitabilmente, a una spasmodica ricerca di nuove fonti di finanziamento e di sponsorizzazione. È però del tutto evidente che l’accettazione di questi depositi non avrà solo conseguenze sul piano economico, ma influenzerà in maniera decisiva anche il modo in cui il museo zurighese interpreta il proprio ruolo culturale all’interno della società e le dinamiche su cui si fonda la sua autonomia culturale.

I depositi, soprattutto quelli di questa entità, finiscono infatti quasi sempre per creare dei condizionamenti che limitano in maniera significativa la libertà curatoriale di chi opera all’interno del museo. Il contratto di deposito stipulato con la Fondazione Bührle prevede, ad esempio, che almeno fino al 2034 la collezione dovrà essere presentata come un insieme autonomo e le sue opere non potranno essere «mischiate» con quelle di proprietà della Kunsthaus.

Invece di dissolversi in una visione storiografica complessa ma unitaria, che permetta allo spettatore di avvicinarsi all’arte moderna e contemporanea sul filo di un percorso critico che ne evidenzi gli elementi di prossimità o di alterità rispetto al tempo in cui viviamo, le collezioni private finiscono così per incastonarsi all’interno dell’istituzione museale come monadi autosufficienti, come una teoria di capolavori assoluti che celebrano in primo luogo il gusto e la cultura di chi li ha saputi individuare e raccogliere. Quasi che, in un estremo tributo all’egolatria del collezionista che sembra caratterizzare il nostro tempo, la sua figura debba essere innalzata allo stesso livello di quella dell’artista.

E così, complice anche un’architettura che inclina sempre più allo sfarzo, seppur in chiave modernista, in un attimo dal museo universale nato della Rivoluzione francese ci vediamo ripiombati nell’Ancien Regime di uno studiolo, o meglio di una serie di studioli, che sono in primo luogo la manifestazione della potenza e dello splendore del Principe. Una tendenza questa, che non riguarda unicamente Zurigo, basti pensare, ad esempio, alla vicenda che ha coinvolto nel 2016 il Musée d’art et d’histoire e il collezionista Charles Gandur, anche se in quel caso il progetto non è andato in porto per l’opposizione della cittadinanza.

Non si vuole certo negare l’importanza di una storia del gusto e la possibilità di raccontare un’epoca attraverso la storia del collezionismo che l’ha caratterizzata, tuttavia, nel momento in cui, nel tentativo di garantirsi una sopravvivenza che vada al di là dei limiti temporali di chi l’ha costituita, una collezione privata aspiri a entrare a far parte di una raccolta pubblica deve necessariamente rinunciare alla rivendicazione della propria integrità, accettando di dissolvere la propria identità in un racconto più ampio. E l’unico modo per farlo in maniera incondizionata è quello di passare attraverso una donazione.

Questo principio generale è valido per qualsiasi collezione privata, ma lo è a maggior ragione per la collezione Bührle. Se i responsabili di questa collezione avessero infatti deciso di donarla alla Kunsthaus senza porre nessun tipo di condizione avrebbero in qualche modo restituito alla collettività anche quanto potrebbe essere stato sottratto nel passato a qualcuno che oggi, pur avendo fatto le opportune ricerche, non può più essere individuato e quindi risarcito. Una donazione incondizionata avrebbe soprattutto significato riconoscere, senza essere costretti a farlo dopo essere passati sotto le forche caudine della storiografia a causa delle polemiche, che quella collezione non è solo il frutto del gusto e dell’amore per l’arte di un individuo, ma anche delle tragiche circostanze storiche che gli hanno permesso di costituirla. (3. Fine)