Del Giudice, il volo della vita

Un ricordo dell’intellettuale Daniele Del Giudice, scomparso lo scorso 2 settembre
/ 13.09.2021
di Paolo Di Stefano

Nei suoi ricordi editoriali, Giulio Einaudi raccontò di essere rimasto sorpreso quando il «giovane autore» Daniele Del Giudice, al suo secondo romanzo, Atlante occidentale, riuscì a imporre la fotografia in copertina: il modellino di un locomotore elettrico. Era rarissimo che l’editore torinese non avesse l’ultima parola sulla scelta dell’immagine. Fatto sta che Del Giudice si proponeva già allora, nel 1985, con un’autorevolezza che altri suoi coetanei non avevano.

Basti dire che due anni prima ebbe, per il suo libro d’esordio, Lo stadio di Wimbledon, una quarta di copertina firmata da Italo Calvino e chiusa da domande che già contenevano delle risposte: «Cosa ci annuncia questo insolito libro? La ripresa d’un romanzo d’iniziazione d’un giovane scrittore? O un nuovo approccio alla rappresentazione, al racconto, secondo un nuovo sistema di coordinate?». Erano domande retoriche, dove l’insistenza sull’aggettivo «nuovo» la diceva lunga sulla considerazione che Calvino aveva per quel giovane amico. Del resto, nella prima intervista, apparsa su «Paese Sera» nel 1978, il giornalista trentenne Del Giudice dava già disinvoltamente del tu a Calvino.

Del Giudice era per metà svizzero, nato a Roma nel 1949 da un padre grigionese scomparso quando Daniele era bambino. Con il secondo matrimonio della madre, dopo gli studi in collegio, si iscrisse in università senza mai raggiungere la laurea anche perché molto presto cominciò a lavorare come redattore (e come critico) alla pagina culturale di «Paese Sera», giornale romano del Partito comunista, ma più popolare dell’«Unità», pur vantando firme illustri come Gianni Rodari, Norberto Bobbio, Umberto Eco. Raccontava Del Giudice di aver vissuto l’infanzia come in un mondo parallelo, diviso tra la lettura vorace e la passione per la tecnica (fu bocciato in seconda media perché non faceva altro che giocare con i trenini elettrici). «Prima di morire, – ricordava – mio padre mi fece due regali: uno era una macchina da scrivere, una enorme Underwood americana con la tastiera italiana; l’altro era una Bianchi 28, una bicicletta. Invece di andare a scuola, andavo con la bicicletta sulla statale Appia, e giravo i colli attorno a Roma. Tornavo a casa, e di pomeriggio mi mettevo la custodia della Underwood sotto il culo, e scrivevo con due dita (come faccio tuttora)».

Il talento per l’osservazione delle cose, l’ossessione per l’esattezza definitoria e l’interesse per la scienza sono i tratti fondamentali della sua narrativa, quelli che lo avvicinano di più al suo «maestro» Calvino. La leggerezza di cui si è detto tanto è in fondo solo un cliché retorico, perché la prosa di Del Giudice è tutt’altro che leggera se per leggerezza si intende sottrazione di peso tout court, levità semplificata o trasparenza priva di malinconie. Anzi, nel presentare i suoi Racconti, Tiziano Scarpa ha parlato giustamente di «utopia malinconica».

È impressionante, in Del Giudice, come il massimo di precisione dello stile, della lingua e dello sguardo piuttosto che produrre un eccesso di «freddezza intelligente» (l’accusa che più spesso gli veniva rivolta), sia capace di realizzare una pienezza conoscitiva e dunque una profondità nell’indagine dei sentimenti. La descrizione contiene in sé un pesante e pensante valore etico, e Del Giudice è uno scrittore che non si limita a narrare ma scrivendo pesa e pensa.

Anche qui, appunto, come Calvino. E come per Calvino, ha subito il destino paradossale di morire per un tradimento del cervello: non però per un ictus, ma per una lenta, sfibrante, decennale malattia cognitiva che gli ha fatto perdere la nozione del mondo, fino alla fine avvenuta il 2 settembre scorso in un istituto di Venezia, diventata da molti anni la sua città, dove ha insegnato e diretto con generosità e intelligenza il festival «Fondamenta».

La tendenza autoriflessiva era già presente sin dagli inizi, ma si è andata complicando nel passaggio dal romanzo (i primi due libri) alle misure più brevi del racconto, dove la materia e gli intrecci si fanno più compressi, oltre che più complessi anche nella sintassi. Non a caso, le due fasi di Del Giudice hanno sempre creato un divario di gusto tra i suoi lettori: chi predilige la prima, chi la seconda, che si inaugura con Staccando l’ombra da terra nel 1994 e prosegue con Mania nel 1997, mentre Nel museo di Reims (splendida parabola di una angosciosa ossessione visiva, 1988) rimane a metà strada, essendo più un racconto lungo che un romanzo.

Dal viaggio d’esordio sulle tracce dell’enigmatico Roberto Bazlen e del suo mistero (si tratta dello stesso Bobi, fondatore di Adelphi, a cui Calasso ha dedicato il suo ultimo libro), si passa nel 1985, con Atlante occidentale, all’incontro tra due amici appassionati del volo, un anziano scrittore in odore di Nobel e un giovane scienziato, che si confrontano sulle nuove prospettive anche filosofico-letterarie aperte dalle avveniristiche frontiere tecnologiche (quelle legate al grande acceleratore nucleare del Cern di Ginevra). I progressi impensabili della scienza riconducono alla riflessione sulla vita, sulla percezione, sulla moralità, sul tempo che muta (altro rovello della scrittura di Del Giudice).

Tutti temi che si ripresentano in Staccando l’ombra da terra, dove il Leitmotiv, quello del volo, viene sviscerato dal pilota dilettante Del Giudice con un supplemento di partecipazione sentimentale in qualunque chiave venga declinato. Che si tratti della caduta di un aereo nuovissimo per via del gelo o che si tratti della tragedia dell’Itavia a Ustica, resa attraverso i drammatici dialoghi del «voice recorder», la grammatica del volo diventa grammatica esistenziale, dialogo tra allievo e maestro, sintesi etica, esigenza di equilibrio tra istinto e competenza tecnica, sguardo dall’alto sulle cose e sul territorio, controllo della mente e dominio del tempo e della narrazione. E così anche i racconti di Mania si spingono fino al limite estremo in cui l’immaginazione si fa corpo, «secondo un nuovo sistema di coordinate», avrebbe detto, sempre, Calvino.