Il grande musicista David Byrne (wikipedia)


David Byrne, ancora sai stupire

Il ritorno dell’ex leader dei Talking Heads regala un disco raffinato e sorprendente, di vera ricercatezza stilistica
/ 02.04.2018
di Benedicta Froelich

Per chi, come la sottoscritta, ha avuto la fortuna di trascorrere la propria infanzia accanto a una madre la cui autoradio consumava incessantemente audiocassette di tutte le più grandi rockstar inglesi e americane, il nome di David Byrne suona, ancor oggi, familiare quanto quello di Topolino – e, del resto, non vi sono dubbi sul fatto che l’ex cantante e frontman degli originalissimi Talking Heads rimanga tuttora una delle figure più carismatiche e geniali della scena musicale degli ultimi quarant’anni: un artista che, un po’ come David Bowie prima di lui, ha deciso di scavalcare a piè pari gli illusori confini tra arte visiva, forma canzone e performance multimediale per imbarcarsi in sperimentazioni e contaminazioni stilistiche a dir poco eclatanti.

Fin dai tempi del rivoluzionario e ispirato live movie Stop Making Sense (1984), Byrne ha infatti sempre infuso le proprie esibizioni dal vivo di sfumature non solo altamente teatrali, ma anche improntate alla valorizzazione di un gusto estetico e performativo perlopiù assente dal rock contemporaneo: una tendenza che ha ora riscoperto, con più forza che mai, nella tournée di lancio di questo nuovo American Utopia, primo disco solista da quattordici anni a questa parte (escludendo le recenti collaborazioni con Brian Eno, Norman Cook e St. Vincent). Un album che, in effetti, ci mostra un Byrne più in forma che mai, in linea con molti dei suoi irresistibili exploit degli anni 90, e che sembra concepito al preciso scopo di deliziare i fan di vecchia data dell’artista scozzese, offrendo svariati esempi di quella riuscitissima contaminazione tra generi a cui il buon David li ha da sempre abituati. 

Ecco quindi che, fin dal primo singolo estratto dal CD – l’accattivante Everybody’s Coming to My House – si può riscontrare una perfetta comunione tra l’inconfondibile stile tipico di Byrne (le sonorità e il cantato di brani storici come Once in a Lifetime non sono mai lontani) e un elemento nuovo, ovvero la tensione verso lo stile musicale di eredi moderni del Maestro quali, ad esempio, gli LCD Soundsystem. Ciò dà vita a intriganti esperimenti di contaminazione elettronica, che vanno da una sorta di revival «robotico» in stile Kraftwerk (si veda I Dance Like This) ai toni epici di Doing the Right Thing – il quale, grazie al raffinato accompagnamento a base di archi, conserva tutta la solenne magniloquenza da sempre tipica del Byrne solista.

Così, accanto a ballate dal sound rarefatto e lo spirito inequivocabilmente «on the road» quali Gasoline and Dirty Sheets ritroviamo, anche in American Utopia, l’abituale sguardo graffiante e beffardo di David sul mondo occidentale, e, ancora una volta, sul consumismo e l’avidità da cui la nostra società è pervasa – come accade nel cinico It’s Not Dark Up Here o nell’irresistibilmente surreale Every Day is a Miracle, entrambi i quali mostrano un ritorno alle atmosfere irriverenti di Uh-oh (1992) e Feelings (1997). 

Ma, in puro stile «à la Byrne», i brani più sorprendenti rimangono quelli che non ci si aspetterebbe dall’artista, ovvero piccole gemme lente e meditate, dal gusto agrodolce e malinconico, come i riflessivi e strazianti This is That e Here, o perfino l’alienante Bullet, che descrive con tagliente ironia la spietata traiettoria di un proiettile (immagine reale o metaforica?) attraverso il corpo di un uomo. Del resto, i testi visionari e assurdamente irriverenti di Byrne sono sempre stati parte integrante del fascino della sua peculiare cifra stilistica, nonché l’aspetto senz’altro più attraente dell’arte dei Talking Heads; e American Utopia non fa eccezione, come dimostrato dalle finezze liriche di brani del calibro del tragicomico Dog’s Mind («se un cane non può immaginare cosa significhi guidare un’auto / anche noi, da parte nostra, siamo limitati proprio da ciò che siamo; siamo cani nel nostro stesso paradiso, intrappolati in un parco a tema di nostra creazione»). 

È quindi chiaro che, ancora una volta, David ha centrato in pieno il bersaglio: la sua natura di musicista dallo stile personalissimo e inconfondibile, nonché dalle tensioni artistiche non solo molteplici, ma anche più che poliedriche, trova piena espressione in quest’album, in cui la capacità di uniformarsi agli attuali gusti del pubblico «colto» non pregiudica in alcun modo la particolare visione musicale. E dire che, dall’alto della fama e dell’età ormai raggiunte, un artista di questo livello non avrebbe davvero bisogno di cimentarsi in ulteriori innovazioni, o azzardate sperimentazioni: eppure, Byrne continua a mettersi alla prova, senza mai disertare quell’affabilità e professionalità, unite a pura disinvoltura e sapienza, che ogni suo sforzo ancora trasuda.