Dalla Casa Bianca agli schermi

Per la prima volta il Man Booker Prize è stato assegnato a uno scrittore statunitense: se lo è aggiudicato l’afroamericano Paul Beatty con «Lo schiavista»
/ 28.11.2016
di Mariarosa Mancuso

Barack Obama esce dalla Casa Bianca. E finisce sugli schermi. Piccoli, grandi e piccolissimi: tra le cose che son cambiate – non serve andare indietro di decenni, basta ripensare all’insediamento del primo presidente afroamericano – c’è il modo di guardare la televisione: spezzettato, solitario, on demand (se si guarda tutti insieme lo stesso programma è per commentarlo sui social, prima stavamo sul divano del salotto cercando di acchiappare il telecomando). Su Netflix – che giusto nel 2008 inaugurava il suo servizio di streaming, gran passo avanti tecnologico rispetto alla spedizione dei DVD a domicilio – il prossimo 16 dicembre sarà disponibile Barry

Presentato al Festival di Toronto e diretto da Vikram Gandhi, il film racconta la giovinezza non proprio tranquilla di Barack Obama, quando studiava alla Columbia University. «Vivevo in una nuvola di fumo», confessa a Michelle Robinson in un altro film recentissimo, Ti amo presidente di Richard Tanne. Southside With You era il titolo originale, dal nome del quartiere di Chicago visitato durante il fatale pomeriggio. Michelle continua a ripetere «Questo non è un appuntamento» (è la tutor del giovane praticante appena entrato nello studio legale dove lavora, unica donna nera). Barack la va prendere con una macchina tanto vecchia che da un buco si vede l’asfalto (lei non fa una piega). Lui mente sull’orario – dovevano andare in parrocchia, ma c’è tempo. Visitano l’Art Institute, ammirando una mostra del pittore afroamericano Ernie Barnes (licenza poetica: nel 1989 c’era in mostra l’americano di origine polacca Andy Warhol). Vanno al cinema a vedere Fa’ la cosa giusta di Spike Lee. Finiscono la serata in gelateria.

Non bastasse la doppietta biografico-celebrativa su Barack Obama, sono in arrivo altri film sulla schiavitù (puntano agli Oscar, dopo il lamento dell’anno scorso per l’assenza dei registi e degli attori afroamericani). Al Festival di Roma c’era Nascita di una nazione di Nate Parker. Stesso titolo del film di David W. Griffith datato 1915, innovativo nella forma e nella sostanza celebrante il Ku Klux Klan. Prospettiva rovesciata: qui si racconta la storia di Nat Turner, ragazzino schiavo che impara a leggere, studia la Bibbia e nel 1831 comanda una rivolta per la liberazione dei neri in Virginia. 

Al Festival di Torino c’è Free State of Jones di Gary Ross, con Matthew McConaughey: altra rivolta, capitanata da Newton Knight: un soldato dell’esercito confederato, disertore quando in trincea vide morire il nipote arruolato giovanissimo, al primo giorno di battaglia. C’erano bianchi, neri, e donne: a guardar bene, siamo tutti schiavi di qualcuno. Possiamo aggiungere, non classificabile in un genere preciso, Moonlight di Barry Jenkins, da una frase che dice «la pelle dei neri è blu alla luce della luna». Protagonista: un ragazzino nero cresciuto nel ghetto di Miami, con lo spacciatore della mamma che gli fa da vice-padre (e ne ha bisogno, da giovanotto gay nel regno del machismo). 

Tra melassa biografica e rievocazioni storiche, fa da antidoto contro la retorica Lo schiavista di Paul Beatty, primo scrittore americano a vincere il Booker Prize (esce da Fazi, con tempismo perfetto). Comincia con il narratore – non ne sappiamo il nome, l’amante Marpessa lo chiama Bonbon – convocato presso la corte suprema degli Stati Uniti. Deve difendersi dall’accusa di aver posseduto schiavi, e di aver reintrodotto la segregazione razziale a Dickens, il ghetto alla periferia di Los Angeles dove è cresciuto. Linea di difesa: «un po’ di schiavitù non ha mai fatto male a nessuno».

Viene in mente Jonathan Swift e la sua «modesta proposta» elaborata nel 1729 per risolvere la miseria irlandese: vendere i neonati ai ricchi inglesi che li avrebbero cucinati arrosto o in fricassea. Lo scandalo è lo stesso (siamo noi che nel frattempo siamo diventati più sensibili). «Nel mio quartiere i padri sono tali solo in contumacia» spiega Bonbon. O sono pazzi come il suo, che prima di finire ammazzato per strada decide di sottoporre il figlio a svariati esperimenti sociologici. Non tutti riescono. Riesce meglio la coltivazione della angurie quadrate, da vendere a Dickens con Watermelon Man di Herbie Hancock come colonna sonora sparata nello stereo. Paul Beatty scrive benissimo, ha un cinismo d’altri tempi, e ricicla ogni insulto – ci saranno anche i fagioli e il pollo fritto, per limitarsi al cibo – tradizionalmente rivolto ai suoi fratelli. Astenersi amanti e cultori della correttezza politica.