Certo non è facile, quando si è stati dei cosiddetti «giovani prodigi», autori di un album da milioni di copie e subito salutati come veri e propri fenomeni della scena pop-rock, riuscire a riprendersi dalla troppa fama – e, soprattutto, a soddisfare le aspettative che il successo troppo precoce inevitabilmente porta con sé. Il caso della rocker canadese Alanis Morissette dimostra quanto sia difficile (ri)crearsi una carriera dopo il riscontro planetario di un album di culto come Jagged Little Pill (1995): un successo che l’artista non è, di fatto, riuscita a riprodurre con nessuno dei cinque album pubblicati negli anni successivi.
Oggi, la Morissette torna però alla carica con un disco particolarmente coraggioso e intenso, vera e propria «dichiarazione d’intenti» di una donna ormai ultraquarantenne, confrontata con le proprie paure e, soprattutto, con la realtà della sofferenza psichica. In effetti, questo Such Pretty Forks in the Road è forse l’album più personale e rivelatorio di una performer la cui musica è sempre stata caratterizzata da una grande introspezione di matrice autobiografica; ed ecco che stavolta Alanis fa un ulteriore passo avanti, presentandosi come un’artista matura, consapevole di quanto la vita possa essere spietata e straziante per chiunque sia dotato di una sensibilità superiore alla media.
L’album nasce infatti dalle esperienze più sofferte della Morissette – la quale, dopo aver combattuto e vinto svariati disordini alimentari giovanili, ha sofferto di una grave e recidiva forma di depressione postparto, sopraggiunta dopo ognuna delle sue tre gravidanze: un vissuto evidente nella natura stessa di questo lavoro dolente e spesso spiazzante, interamente animato dalla struggente consapevolezza della propria fragilità emotiva e dalla costante sensazione di trovarsi in bilico tra un illusorio controllo e padronanza di sé e della propria vita, e la più disperante impotenza.
E proprio grazie a ciò viene a crearsi una sorta di «transfert psicologico» tra Alanis e il suo pubblico, reso possibile dal legame anagrafico con la stragrande maggioranza degli ascoltatori di venticinque anni fa, all’epoca poco più giovani della stessa cantante: tardo-adolescenti che, al pari di chi scrive, finirono per consumare (letteralmente) la musicassetta di Jagged Little Pill nei loro walkman. Oggi adulti e, nella maggior parte dei casi, pervasi dalla nostalgia per quegli anni spensierati, molti di loro hanno assistito alla disillusione e al crollo degli ingenui sogni di allora – ritrovandosi, proprio come la loro antica eroina, confrontati con la dura quotidianità della cosiddetta «real life».
Così, fa un certo effetto ascoltare un brano come Diagnosis, forse l’autoritratto più crudo e onesto mai interpretato dalla Morissette: un piccolo capolavoro in grado di esplorare con totale onestà (e senza troppi giri di parole) la realtà quotidiana che soltanto chi ha sperimentato in prima persona il lento e alienante succedersi di mesi (o magari anni) perduti negli indefinibili abissi della più bieca sofferenza psichica può davvero comprendere e riconoscere.
Soprattutto, la voce di Alanis si può qui definire al suo meglio, in quanto combina la peculiare e coraggiosa emotività di sempre con una maturità e spessore vocale di gran lunga superiori a quelli di gioventù: la grande personalità da sempre insita nel timbro della Morissette si fonde infatti con una nuova consapevolezza, caratterizzata da grandissimo autocontrollo interpretativo – vera forza di ogni traccia di questo CD.
Lo dimostra il singolo di lancio, Reasons I Drink, coinvolgente riflessione sulle «addictions» e sull’impossibilità di esternare davvero agli altri ciò che si prova; mentre la ballata Smiling, incentrata sulle sensazioni contrastanti che l’ammissione di un fallimento porta con sé (e sulla necessità di cercare aiuto) ci riporta direttamente all’inconfondibile «vibrato» per il quale Alanis è da sempre nota, e allo stile compositivo degli anni d’oro – un po’ come accade con Losing the Plot, Her e Ablaze (quest’ultimo uno dei pochi brani di tema strettamente romantico del disco). E se il cantato ha qui raggiunto notevoli picchi evocativi (si veda Nemesis), anche le liriche, a tratti più immediate e concise di un tempo, si fanno urgenti ed efficaci, evidenziando subito come gli argomenti esplorati tocchino da vicino l’interprete.
Such Pretty Forks in the Road diviene così un album per molti versi sorprendente, caratterizzato dalla rara capacità di ammaliare l’ascoltatore tramite un sapiente connubio tra cruda emotività e raffinata sensibilità artistica – qualcosa di cui non troppi artisti possono oggi vantarsi; e se la voce di Alanis Morissette suona meglio di quanto abbia mai fatto prima, anche la sua energia di donna e performer sembra beneficiare della natura fortemente personale e perfino intima di questo lavoro, restituendole un carisma che forse non aveva più saputo esprimere dai tempi gloriosi del tanto sbandierato Jagged Little Pill.
Dal prodigio all’introspezione
Il coraggio di mettersi a nudo: «l’ex prodigio» Alanis Morissette torna alla ribalta con un album maturo, dall’onestà e potenza emotiva invidiabili
/ 15.06.2020
di Benedicta Froelich
di Benedicta Froelich