Innanzi tutto occorre ringraziare Diego Fasolis per la scelta del titolo di questa terza e nuova produzione operistica del LAC, andata in scena lunedì 4 settembre con repliche fino a domenica 10, la prima coproduzione con tre teatri dell’Emilia Romagna e dunque fortunatamente destinata a vita più lunga delle precedenti.
L’opera di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani è bellissima e sontuosa ma poco nota al grande pubblico
Anna Bolena di Gaetano Donizetti su libretto di Felice Romani è opera bellissima, sontuosa, inaugurale, e tuttavia poco nota al grande pubblico, nonostante i pregevoli allestimenti che si sono susseguiti dopo la riscoperta di questo capolavoro andato in scena la prima volta nel 1830, poi rimasto in repertorio per tutto il secolo (qualcuno ne ricorderà la citazione in Piccolo mondo antico di Antonio Fogazzaro) ma poi dimenticato fino appunto alla riproposta nel 1957 alla Scala con Maria Callas, sotto la bacchetta di Gavazzeni e la regia di Luchino Visconti.
La vicenda riguarda l’ultimo scorcio di vita dell’infelice regina, ormai archiviata dal re in favore della sua dama di compagnia Jane (qui Giovanna) Seymour e dunque destinata al patibolo. Enrico VIII vuole liberarsene e, per trovare un appiglio, richiama a corte il di lei precedente e ancora innamorato Riccardo Percy, mentre la nuova futura regina è contesa tra ambizione e rimorso. Ambiziosa è anche l’intelligente Anna Bolena, per la quale il trono ha avuto più interesse del vero amore con Percy. «Due donne che si servono del letto per arrivare al trono e un uomo che usa il trono per arrivare al letto», così il non dimenticato regista Graham Vick ebbe a riassumere l’intero dramma.
Carmelo Rifici ci trasporta in uno spazio fuori del tempo, oscuro e claustrofobico, alimentato da bagliori corruschi, quasi una proiezione delle cupe passioni che agitano i protagonisti. Lo asseconda assai bene in questo intento la scena girevole di Guido Buganza, che offre alla regia infinite possibilità di movimenti e declinazioni: si entra, si esce, si chiudono e aprono porte, lo spazio segue il dipanarsi della storia, personaggi e coro – che Rifici muove con maestria – sembrano rincorrersi in un labirinto senza sbocco. Fuori del tempo sono anche i costumi di Margherita Baldoni evocanti un lontano Rinascimento, privati dello sfarzo dell’epoca e vicini a una essenzialità più contemporanea e forse borghese. La vicenda regale ha infatti una dimensione familiare e i personaggi sono colti nell’intimo delle loro pulsioni estreme. Ciò è evidente sia nella disperazione di Anna (Carmela Remigio, una delle massime interpreti di questo ruolo oggi), più donna che regina, sia nella sensuale volgarità espressa da Enrico (Marco Bussi, debuttante nel ruolo, e già lo fa suo con un taglio quasi inedito), o nella fresca passionalità di Percy (il tenore Ruzil Gatin che ci regala acuti da togliere il fiato a lui e a noi). Ma tutto il cast si fa notare, e Arianna Vendittelli è una Giovanna bifronte, di sicuro impatto, mentre Paola Gardina disegna uno Smeton intensamente espressivo.
Il potere è il vero motore della vicenda, lo vediamo trasparire nella brutalità di Enrico, nella macelleria dei carnefici che torturano e uccidono, nelle mura che soffocano. L’idea stessa di regalità, se emarginata dai ruoli principali in favore di una dimensione privata e viscerale, trova rifugio nella bella idea registica di portare in scena la straordinaria figura della figlia di Anna Bolena e di Enrico, colei che diventerà forse la più importante sovrana della storia occidentale, Elisabetta I, qui bambina in abiti regali, muta presenza all’inizio e alla fine del dramma. E la lettera che la madre le consegna poco prima di salire al patibolo è un passaggio di testimone: quella regalità non completamente espressa nel breve periodo di regno di Anna troverà modo di esprimersi pienamente nel glorioso regno di Elisabetta.
Alla testa dei Classicisti (già Barocchisti), che suonano strumenti storici, e del Coro della RSI, Diego Fasolis ha offerto una direzione potente, ardente e rigorosa fin dalla splendida sinfonia d’apertura, quasi un invito al pubblico a seguirlo in un’avventura meravigliosa, appena cominciata. Perché proprio di questo si tratta: con Anna Bolena Lugano si avvia a diventare polo di produzione operistica che intende profilarsi con allestimenti di titoli attraenti ma non scontati e regie «rispettose del libretto e della musica» (sono parole dello stesso Fasolis) senza però volgersi a una tradizione stantia, ma al contrario rinnovandola con l’occhio della contemporaneità, come accaduto finora con Rifici. È un progetto di chi sa costruire e guardare lontano, la città di Lugano deve esserne fiera. Anna Bolena si appresta a proseguire il cammino nei teatri di Reggio Emilia, Piacenza e Modena, in quest’ultimo programmata per il 23 e 25 febbraio 2024.