Dal Brasile non solo realismo

A colloquio con il professor Roberto Francavilla che sarà ospite del Festival bellinzonese di traduzione e di letteratura Babel
/ 10.09.2018
di Matteo Campagnoli

Dopo l’edizione dello scorso anno, dedicata all’Aldilà, il festival di letteratura e traduzione Babel (Bellinzona, 13-16 settembre) torna a occuparsi di una nazione, il Brasile. Tra gli ospiti, il professor Roberto Francavilla, scrittore, traduttore e docente di letteratura portoghese e brasiliana presso l’Università degli studi di Genova. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare il suo Brasile.

Visto che ho il piacere di conoscerti, lascio da parte il «lei» riservato al professor Francavilla e passo subito al tu con cui siamo più a nostro agio: Com’è cominciata la tua passione per la letteratura brasiliana?
Un doppio viaggio iniziatico: il primo reale, in lungo e in largo per quel paese continente, zaino in spalla, tanti anni fa, alla ricerca di corrispondenze fra l’immaginario letterario che le mie letture giovanili avevano prodotto in me (Jorge Amado in primis) e le geografie fisiche e soprattutto umane che andavo attraversando e incontrando; il secondo, squisitamente letterario, compiuto durante le lezioni di Antonio Tabucchi – il mio maestro – su João Guimarães Rosa e il suo sertão allegorico, su due grandi poeti come João Cabral de Melo Neto e Carlos Drummond de Andrade.

Quel viaggio «reale», fra l’altro, aveva segnato l’improvvisa, e a tratti perfino contundente, decostruzione forzata di una serie di stereotipi che avevo alimentato prima della conoscenza empirica del Brasile. Mi sconvolse, ad esempio, la differenza abissale fra la dimensione rurale, sertaneja, ancora profondamente arcaica e la modernità aggressiva e cosmopolita delle grandi metropoli del sud, in particolare San Paolo, ancora oggi mio riferimento personale.

Il Brasile è una nazione vasta quanto un continente, popolata dai discendenti dei nativi sopravvissuti alla colonizzazione e da quelli dei portoghesi e degli schiavi africani. Che tipo di letteratura ha prodotto questo ambiente? Esiste una cifra comune?
C’è un tema che oserei definire ossessivo ma che si spiega considerando la storia coloniale: la ricerca di identità. Tre grandi matrici (una endogena, l’amerindio, e due esogene, il portoghese e l’africano) hanno originato la società brasiliana a cui, da fine Ottocento, si sono andati unendo altri universi linguistici e culturali (italiani, tedeschi, russi, polacchi, ebrei, libanesi, giapponesi ecc.). Da qui i tentativi (non tutti riusciti) di elaborare un’originale cifra identitaria: dall’indio da operetta prodotto dal Romanticismo, per fare un esempio, alla rapsodia modernista del Macunaíma di Mario de Andrade (un’opera imperdibile!), attraverso il manifesto-dilemma dell’altro genio dell’avanguardia, Oswald de Andrade: Tupy or not Tupy? (il riferimento è al grande gruppo linguistico amerindio tupi-guarani).

A Babel si darà particolare attenzione alla letteratura dei «margini» e anche a voci non prettamente letterarie, come quella dello sciamano yanomamo Devi Kopenawa. Quali difficoltà incontrano gli autori che non appartengono all’élite letteraria o che non vivono nei grandi centri urbani?
Penso al grido lanciato dagli scrittori della cosiddetta «letteratura marginale» non solo per raccontare la loro geografia del disagio e della resistenza ma anche per sancire definitivamente, aspetto per me fondamentale in termini teorici, la loro auto-legittimazione. Chi decide che «sì, questa è letteratura»? L’accademia, l’editoria e il pubblico, trittico essenzialmente urbano, borghese, maschio e bianco! Il discorso prevede la messa in discussione e possibilmente la sovversione di categorie secolari e riguarda la dialettica canonica fra egemonia e subalternità. Anche il più noto scrittore di favela (ma sarebbe meglio chiamarla comunidade), apprezzato, premiato e tradotto, esiste perché l’interazione fra gli elementi di quel trittico gli permette di esistere.

Ho l’impressione che a livello internazionale la letteratura non solo brasiliana ma di tutto il Sud America sia rappresentata da pochi nomi, dai quali si fatica a scostarsi. L’ombra di giganti come Borges, Neruda, Amado, Garcia Márquez, Cortázar, Vargas Llosa è davvero troppo grande o secondo te ci sono altre ragioni?
Con il sorriso e con un po’ di esagerazione, potrei dire che si tratta dei danni collaterali del Realismo magico! Ancora oggi il lettore medio (ammesso che esista) «si aspetta» quel tipo di atmosfere. È l’immediata riconoscibilità sui cui ha buon gioco un certo marketing editoriale. A ciò si aggiunga l’imperituro fascino degli scenari esotisti e non ultima l’incapacità (o pigrizia, o mancanza di volontà) di comprendere la complessità di quei mondi. Vale per l’America Latina in generale: almeno un paio di generazioni di eccellenti narratori ormai svincolati, in senso positivo, dalle loro rispettive tradizioni, che ancora pagano lo scotto di essere accostati, in un caso perverso di immobilità culturale, ai mostri sacri che hai citato e che li hanno preceduti.

Oltre a insegnare letteratura portoghese e brasiliana, hai tradotto alcuni grandi autori, tra cui Clarice Lispector, della quale parlerai al festival. Cosa la rende una scrittrice così speciale?
La sua natura. Certo, potremmo indagare la sua biografia, le sue origini di ebrea ucraina sfuggita al pogrom, la malattia, le nefaste disavventure accidentali che l’hanno minata. Ma la sua unicità risiede dentro di lei. Un animale insondabile, profondissimo, complesso. Una figura unica, in tutti i sensi.

Com’è stato confrontarsi con Acqua Viva? Ti è stato d’aiuto o d’impaccio il fatto che il libro fosse già stato tradotto in precedenza?
Nutro molto rispetto per la traduzione assai sensibile di Angelo Morino (uscita per Sellerio), che però era un ispanista. E in ogni caso faccio mia la lezione di Paul de Man: nessuna lettura di un testo può essere definitiva e ogni versione vive di vita propria!

Il tuo ultimo lavoro è la traduzione di un’antologia delle poesie di Carlos Drummond de Andrade (in uscita per Adelphi), un poeta straordinario anche lui poco conosciuto dalle nostri parti, sebbene sia stato in parte tradotto da Tabucchi. Per chiudere ci regali qualche suo verso?
Per rimanere in tema, ecco l’incipit – spero benaugurale per Babel – del suo Canto brasiliano: Brasile: / il nome risuona in me è campana / che arde falò apetalo / in curva di chitarra / calore di vecchie ore nello stridio / di cose nuove. / Brasile / Mio modo d’essere e di vedere e sentirmi triste e saltare / in piena tristezza come si salta in alto / sull’acqua corrente.