Dove e quando

Orio Galli, Grafica e grafismi, m.a.x. Museo, Chiasso. Fino all’8 ottobre.

Ma-do 10.00-12.00 / 14.00-18.00.



Dai caratteri di Gutenberg al precipizio dell’IA

Protagonista fino all’8 ottobre della mostra al m.a.x. museo di Chiasso, Orio Galli racconta la sua grafica
/ 11.09.2023
di Eliana Bernasconi

Fra gli obbiettivi primari del m.a.x. museo vi è la conoscenza di quel settore dell’arte contemporanea da sempre legato alla committenza che si colloca tra invenzione artistica e professionalità, tra Grafica d’Arte e Graphic design, e niente come questa esposizione lo realizza. Gli oltre 300 pezzi esposti documentano l’iter creativo e professionale di Orio Galli, nato nel 1941, dalle prime ricerche degli anni 60 alle opere dell’età matura. Ritroviamo nelle ultime sale decine di imperdibili e famosi manifesti pubblicitari, come ad esempio Ticino terra d’artisti realizzato per l’Ente ticinese del Turismo nel 1984 e tradotto in molte lingue, o la caffettiera del Caffè Moretto del 1970, gli stampati ufficiali per la Confederazione elvetica e molto altro ancora. Il linguaggio espressivo di questo artista nasce da una felice fusione tra il rigore progettuale di scuola svizzera e l’irruenza creativa pittorica latina. Un altro aspetto della sua produzione (e della sua personalità ) è visitabile alla Biblioteca Cantonale di Lugano: sono vignette e scritti satirici (Galligrammi d’Orio). Con lo stesso processo creativo che usa con le forme geometriche, con le linee e il colore, Galli scompone e ricompone anche la parola scritta in nuovi giochi e in sempre diversi significati, l’aforisma gli è congeniale, e come nella comunicazione visiva realizza divertendosi continue immagini. Non solo nelle opere ma anche nel suo discorso l’urgenza espressiva è inarrestabile, spesso è al servizio dell’indignazione e dell’appassionato spirito critico con il quale vuole avvertirci di ciò che vede con chiarezza.

Grafico, pittore, illustratore, calligrafo e disegnatore satirico… ma non ama essere definito artista, perché mai?


Perché la definizione di artista mi suona troppo elitaria e astratta. Staccata dalla realtà di un mestiere che ti deve pur dar da mangiare attraverso una manualità, che è comunque sempre arte del fare; possibilmente bene: «a regola d’arte».

Quando ha capito che la grafica sarebbe stata la sua strada?


Intorno ai dodici anni, vedendo i manifesti affissi dove c’era l’Ospedale della Beata Vergine, oggi sede dell’Accademia di Architettura; il mestiere del grafico in Ticino era ancora sconosciuto, per cui dovetti optare per un apprendistato di vetrinista. Le prime opere che mi hanno affascinato sono state quelle di Herbert Leupin, Donald Brun, Celestino Piatti, Hans Falk, Alois Carigiet.

Lei è tornato in Ticino dopo un lungo soggiorno di formazione a Zurigo, e nel 1968 hai aperto lo studio come professionista indipendente, quali possibilità si offrivano a chi operava nel tuo campo in quegli anni?


Innanzi tutto ho dato nella Svizzera interna gli esami di grafico avendo già un certificato federale in una professione affine (decoratore vetrista). Sono dunque stato il primo ticinese a ricevere un diploma in questo mestiere dalle nostre autorità cantonali. Ma poi non è stato assolutamente semplice trovare all’inizio clienti e lavoro nel nostro cantone. In questo ho avuto anche il sostegno e l’incoraggiamento di mia moglie che conosceva il settore essendosi formata a Zurigo come assistente.

Diceva che chi, come lei, è nato agli inizi degli anni Quaranta ha vissuto un incredibile cambiamento culturale e esistenziale. Come lo descriverebbe?


Un caso, una coincidenza generazionale che mi ha offerto occasioni e possibilità uniche... anche in una piccola e marginale regione com’è il Canton Ticino. Forse perché sono salito, certe volte anche al volo, su alcuni treni che ho visto passare.

Oggi in Ticino cosa è cambiato?


Oggi tutto è completamente cambiato, soprattutto da quando la «globalizzazione» ha concentrato quei pochi centri economico-decisionali nelle grandi città, e la «digitalizzazione» ha facilitato e ridotto di moltissimo il tempo di alcune operazioni. Nel contempo sono paradossalmente sorte infinite scuole che offrono però possibilità di lavoro solo a quei pochi privilegiati che accedono all’insegnamento, o alla RSI che è un’azienda «fuori mercato».

Ritiene fondamentale la pratica della calligrafia…


La grafia che tutti hanno imparato a scuola è una base propedeutica formidabile per il movimento ergonomicamente corretto della mano con matita, penna, pennello. Purtroppo oggi un po’ alla volta tutto ciò si sta smarrendo. Perdendo un patrimonio storico, culturale, artigianale, etico, estetico… Per un grafico queste conoscenze stanno alla base dell’uso e del disegno dei caratteri «a stampa» (informativi). E di una loro applicazione più espressiva attraverso il «lettering». La mia riscoperta e riproposta della calligrafia («galligrafia») soprattutto creativa e emozionale non deve essere intesa in chiave sentimental nostalgica, semmai come valorizzazione di alcune componenti essenziali della fisicità dell’essere umano, come sapersi muovere, saper godere, riflettere, pensare, che un uso prevalentemente tecnocratico del computer è andato distruggendo.

Come descrive il lavoro nel quale opera da 50 anni?


Era un lavoro che richiedeva soprattutto capacità manuali. Dalla metà alla fine del secolo scorso ho vissuto la mia carriera professionale in corrispondenza del passaggio dall’analogico al digitale. Una coincidenza storica incredibile: dai «caratteri mobili» di Gutenberg (1450 circa) ai Chips e al nulla degli anni 2000. Mentre oggi stiamo precipitando nell’IA. Ma qui siamo arrivati non solo alla fine di un mondo (di un modo di fare e pensare) ma alla fine dell’uomo. Della sua umanità.

«Il nulla degli anni 2000» non è un termine eccessivo?


Mi sembra che nessuno realizzi che siamo nel mezzo di un mutamento antropologico micidiale. Veniamo da un percorso tecnologico in cui avevamo pur sempre la ruota, i caratteri mobili della scrittura, la macchina a vapore, un’evoluzione che oggi si è fatta verticale. Ma adesso il virtuale mette in discussione il nostro cervello, ci viene tolta la possibilità di decidere e pensare, la macchina sta diventando dominante a livello mentale.

In questo non si ritrova?


Insomma, io ancora appartengo al tempo della manualità. Quello della matita, della penna, del cacciavite, della tenaglia e del martello… Strumenti che fino a qualche decennio fa venivano ancora trasmessi di padre in figlio, e da figlio a nipote. Altro che «civiltà dei consumi»! Mentre oggi lo strapotere della tecnocrazia ti farebbe anche mangiare i «social» cambiando la loro programmazione e inventandone dei nuovi, tra la sera e la mattina. Certo, la mia, nella società di oggi appare come una posizione donchisciottesca. Anche se di questo anacronismo credo di essere consapevole. Preferirei comunque morire con questa consapevolezza piuttosto che con una mente distrutta dalla follia dell’Intelligenza Artificiale.

Si può cambiare qualcosa?


Non molto, ti dicono: «Questo è il progresso, non serve opporsi». Ma allora perché non mettere in discussione il concetto stesso di progresso? In passato era un processo lineare e oggi diventa verticale, siamo ignoranti nel senso etimologico del termine, è in discussione il nostro stesso essere e per questo si tende a rimuovere il problema e non lo si avverte. I grandi filosofi dove sono spariti? Non sentite più nessuna voce... Umberto Eco parlava di apocalittici e integrati, con un gioco di parole; io parlerei di… «disintegrati». Non so se forse la filosofia potrà salvarci.