«Ed io, chi sono?» Il dubbio di Lorenzo Viotti non è mai stato amletico: tra l’essere e il non essere musicista, non ha mai avuto esitazioni. Figlio di un grande direttore d’orchestra, cresciuto in una famiglia di musicisti (suonano anche il fratello e le due sorelle), fin da giovanissimo ha mosso i suoi passi sul sentiero dell’arte; oggi, a 29 anni appena compiuti, il suo nome già luccica nel firmamento concertistico internazionale, richiesto da orchestre d’eccellenza come la Filarmonica della Scala e la Gewandhaus di Lipsia.
La domanda di questo bel ragazzo nato il 15 marzo del 1990 a Losanna ha accenti vagamente leopardiani (l’«ed io che sono» del Pastore errante dell’Asia) e riguarda la sua identità. «Sto cercando di capire chi sono veramente; ho fatto dei passi avanti, ma non è ancora tutto chiaro, a me e credo anche agli altri». Il nome italianissimo ha radici piemontesi: la famiglia Viotti a cavallo dell’800 annoverò Giovan Battista, insigne violinista amato a Versailles e a cui viene attribuita la melodia della Marsigliese. «Tutti credono che sia italiano, non solo per il cognome ma per il nome, Lorenzo. Ma come si capisce dalla voce, non lo sono».
In effetti l’accento è inconfondibilmente francese: «Sono nato a Losanna, Svizzera romanda; in famiglia dai 14 anni in poi ho parlato solo francese, la mia seconda lingua è il tedesco, la terza l’inglese, imparato per motivi di lavoro; l’italiano è solo la quarta: il vocabolario non è ancora molto ampio. L’anno scorso ho diretto per la prima volta alla Scala; quando mi sono trovato davanti alla Filarmonica, mi sentivo in dovere di parlare italiano, ma mi sentivo inadeguato: non riuscivo a trovare termini pertinenti a certi concetti, l’accento era da straniero, vedevo gli sguardi un po’ spiazzati. È in occasioni come quella che mi domando chi io sia veramente».
Accennava a passi avanti. «Infatti quest’anno sono ritornato alla Scala e ho iniziato a parlare inglese, con qualche parola di italiano. Non mi preoccupo più di quello che dovrei essere secondo le attese della gente, inizio ad accettare il fatto che sono uno svizzero di lingua francese che ha semplicemente un nome e delle origini italiane». In questi dodici mesi è maturata la visione del suo passato: «Ho parlato italiano fino ai 14 anni, con mio padre. Poi lui morì, colpito da un ictus mentre era sul podio: se ne è andato facendo la cosa che amava di più, dirigere. Da allora non ho più parlato italiano fino a quando, con i primi concerti, non ho iniziato a frequentare i teatri della Penisola».
Invece l’eredità artistica paterna non è stata messa da parte: «Prima di dedicarmi alla direzione ho studiato pianoforte, canto e percussioni. Ed è proprio stando tra timpani, piatti e tamburi che ho potuto fare le prime importanti esperienze in orchestra. Suonavo nei Wiener Philharmoniker, una delle migliori formazioni al mondo, sul cui podio passano i più grandi direttori; capita che il percussionista non debba suonare anche per interi minuti, quindi potevo starmene lì, in fondo all’orchestra, a osservare i gesti e gli sguardi di chi stava sul podio: li studiavo e cercavo di carpirne i segreti». Stessa dinamica quando cantava nel coro dei Musikverein, la sala dove si celebra in mondovisione il Capodanno degli Strauss: «Ho affrontato tutto il repertorio sinfonico-corale; non mi ricordo neanche quante volte abbiamo eseguito il Requiem Tedesco di Brahms o la Messa da Requiem di Verdi. Con Riccardo Muti non ho imparato molto: l’intesa con i Wiener è talmente perfetta che quasi non ha bisogno di spiegare e correggere; invece con Fabio Luisi ho capito la precisione del gesto».
Ora sono gli orchestrali a seguire attentamente i suo gesti; qualcuno ironicamente sottolinea «le» orchestrali: Viotti è bello e ha un fisico atletico: «Faccio boxe, mi serve per scaricarmi dalle tensioni e per caricarmi prima di una produzione importante; ormai conosco le palestre di mezza Europa, in ogni città in cui dirigo so dove allenarmi».