Mi pare ultimamente che molte persone abbiano trovato la sorgente dell’eterna giovinezza. Troppe persone, per essere vero. E la chirurgia estetica non c’entra nulla. Sono, queste persone, coloro che malgrado l’aspetto e l’anagrafe mi informano con convinzione ad esempio che: «gioco a scacchi da quando sono bambino». Prima l’occhio sull’interlocutore, poi l’orecchio su ciò che questo sostiene, ci dovrebbero dire entrambi che c’è una nota stonata. Da quando giocare a scacchi (ma qualsiasi altro esempio simile farebbe al caso nostro) prolunga l’infanzia all’infinito? La forma corretta dell’enunciato è certamente «gioco a scacchi da quando ero bambino».
Agli scettici mettiamo sotto il naso un esempio assurdo: «gioco a scacchi da quando ho perso i denti da latte». Bene, ci crediamo senza problemi. A nessuno verrebbe in mente di preferire il verbo al tempo presente, in un caso del genere, e lanciarsi in un «gioco a scacchi da quando perdo i denti da latte»! La sfumatura fra imperfetto e passato prossimo qui non ci interessa molto; ciò che ci deve convincere è la necessità di scegliere un tempo verbale appartenente alla sfera temporale del passato, perché «quella circostanza», «quella situazione» è ormai compiuta e conclusa. Suvvia, non siamo più bambini da un bel pezzo.
Se l’esempio paradossale appena citato non riesce a persuadere i più incalliti emuli di Peter Pan su quale sia la forma corretta da utilizzare, ecco che viene in nostro soccorso l’autorevole voce dell’Accademia della Crusca, che spiega come «[l]’uso del presente, fortemente colloquiale, si spiegherà con la tendenza a ridurre il ventaglio dei tempi verbali al presente affidando a elementi lessicali la determinazione temporale». In pratica il nostro buon giocatore di scacchi che si crede eterno seienne non ha trovato il segreto dell’eterna giovinezza; piuttosto trova pigramente più comodo affidarsi al verbo al presente, perché…. beh, perché «tanto si capisce cosa volevo dire».
Ma perché cedere sempre alla tentazione del minimo sforzo? Se la nostra bella lingua ci ha dato in dono anche un bel bouquet di tempi verbali, perché non utilizzarli? E non vale invidiare la lingua indonesiana perché non ne possiede. Per la verità gli esperti della Crusca, con una certa indulgenza, osservano come il fenomeno sia simile a «quel che sta avvenendo con la riduzione del futuro in presenza di avverbi temporali di posteriorità» («domani parto» invece di «domani partirò»). In questa specifica scorciatoia linguistica cadono ancora più parlanti di quanti siano quelli citati in precedenza.
E se dietro questi fenomeni del nostro italiano del ventunesimo secolo non ci fosse competenza insufficiente né pigrizia linguistica? Bensì qualcosa di ben più sottile? Filosofico? Sociologico? Preferiamo tendenzialmente utilizzare il più possibile il tempo verbale presente, anche là dove occorrerebbe il passato o il futuro, perché cerchiamo con tutte le forze di aggrapparci al «qui e ora»? Prolunghiamo all’infinito l’infanzia e non scrutiamo nel nebbioso orizzonte del tempo che verrà?
Sul finire del ’400 Lorenzo il Magnifico si era posto la domanda. E si era dato una risposta, spronando la spensieratezza dell’età acerba e giocosa, senza troppe ansie per il futuro. «Chi vuol esser lieto, sia, del doman non c’è certezza».