Forse non accade spesso quanto si potrebbe sperare, ma talvolta può succedere che anche una band ormai celebre e affermata come quella degli statunitensi The Killers possa decidere di sorprendere i fan con un album stilisticamente molto diverso da quanto ci si aspetterebbe da loro – e può anche capitare che tale esperimento riesca oltre ogni più rosea aspettativa. Come avvenuto con questo nuovo Pressure Machine, che vede i Killers, da sempre distintisi per la natura «epic rock» della loro musica, cimentarsi con la creazione di un vero e proprio concept album di matrice cantautorale, dalla forte base autobiografica (l’esperienza del frontman Brandon Flowers, cresciuto in una piccola cittadina dello Utah, tra mormoni e zone desertiche).
L’album diventa così un patchwork di storie a cavallo tra la commozione inevitabilmente suscitata dal ricordo di tempi più innocenti, e il dolore scatenato dall’ineluttabile, tragica disillusione dell’età adulta: come in un’opera letteraria a cavallo tra le malinconie di William Faulkner e la coscienza working class di Woody Guthrie, la band dà voce alla gente comune che vive immersa nelle atmosfere rarefatte e vagamente surreali della provincia americana, facendo introdurre ogni brano da un estratto parlato, tratto da interviste a giovani (e meno giovani) uomini e donne – i quali, di volta in volta, esprimono affetto e senso d’appartenenza, oppure rassegnazione e disgusto, nei confronti del microcosmo nel quale sono nati e cresciuti.
Su tutto, evidente nell’ambivalenza verso quei luoghi privi di vera storia, aleggia una sorta di sotterranea, strisciante disperazione, che a tratti si traduce nella dolente consapevolezza di non riuscire a sfuggire al destino dettato dalla small town culture, rimanendo così costantemente in bilico tra l’ingenuità giovanile e le brucianti delusioni date dal mondo esterno. A unire tra loro queste vicende, come un filo rosso al quale è impossibile sfuggire, vi è la presenza costante della religione istituzionalizzata, cruciale nella mentalità di luoghi in cui si nasce e si muore sotto lo sguardo sempre vigile di quel Dio il cui unico figlio si è immolato per la salvezza dell’umanità – la quale, nonostante tale sacrificio, ancora non riesce a risollevarsi da un’eterna e insensata disperazione.
Le storie che Flowers racconta hanno infatti come protagonisti personaggi costretti a confrontarsi con la propria, innata condizione d’impotenza: quasi tutti loro desidererebbero soltanto sfuggire alla gabbia rappresentata dalla loro limitata realtà quotidiana (si veda Cody, l’adolescente dalle tendenze piromani dell’omonima canzone, costretto dalla noia ad atti dimostrativi senza arte né parte) – eppure, nessuno riuscirà mai a spiccare davvero il volo, come dimostrato dal destino preordinato della troppo innocente ragazza di Runaway Horses, sposatasi appena adolescente con l’amico del liceo.
Sullo sfondo, il paesaggio magnetico e spietato tutt’intorno alla cittadina che fa da fulcro al CD è elemento cruciale nella lotta impari in cui i suoi figli annaspano; dall’assurda morte di una coppia di fidanzatini travolti da un treno di passaggio (Quiet Town) al dramma che, nella magistrale traccia d’apertura, si svolge sullo sfondo delle West Hills, le colline a ovest, dove un uomo inconsapevole si ritrova condannato a 15 anni di prigione per semplice possesso di droga – solo per poi arrendersi all’unica possibilità rimastagli, ovvero il suicidio.
In fondo, è spesso il lato più prevedibile e meschino della vita a spazzare via in un attimo ogni antica ambizione – come quando ci si trova confrontati con la surreale illogicità della violenza domestica (Desperate Things), o con l’alienante routine di vite smozzicate e insoddisfatte, spesso trascorse alla catena di montaggio di una fabbrica, mentre l’amore lentamente sbiadisce (in The Getting By e la toccante title track Pressure Machine). Il tutto mirabilmente illustrato da arrangiamenti attenti e delicati, in cui le sonorità folk a base di archi, armoniche a bocca e mandolini vincono sull’epicità rock di sempre, facendo sì che la cornice perlopiù acustica e minimalista porti l’intensità della narrazione ad altissimi livelli; il che nulla toglie, naturalmente, a quei brani invece più legati al puro stile rock tipico dei Killers (In The Car Outside e In Another Life).
In tutto ciò, l’inevitabile perdita dell’innocenza – la presa di coscienza della propria mortalità – lascia a tratti il posto a una certa, insopprimibile meraviglia e gratitudine nei confronti della vita, come nella struggente ballata Sleepwalker: perché se è vero che occorre rassegnarsi ai gravi limiti che l’esistenza comporta, è comunque possibile riuscire ad afferrare il grande significato e dono che ogni umana esperienza comunque comporta. Proprio questo, in fondo, è l’insegnamento principale di questo splendido, commovente album – apparentemente atipico per una rock band come i Killers, eppure così ben riuscito da potersi considerare un capolavoro.
Cuore profondo
Nel profondo della provincia: come in un romanzo di Steinbeck, i Killers s’immergono nell’intimismo americano per esplorare i rimpianti dell’età adulta
/ 11.10.2021
di Benedicta Froelich
di Benedicta Froelich