Critico impressionista

Firma contesa dai maggiori quotidiani italiani, autore di fortunate biografie, Pietro Citati è morto il 28 luglio scorso
/ 08.08.2022
di Paolo Di Stefano

Chi lo considera un genio, chi lo considera poco più che un mistificatore della letteratura che sulla letteratura ha costruito la sua popolarità.

Un suo aspro oppositore, Alfonso Berardinelli, ha scritto che Pietro Citati «ha trasformato la scrittura critica in narrazioni riassuntive di dimensioni abnormi, che hanno senza dubbio il vantaggio della leggibilità, ma usurpano il nome degli autori». Gli autori su cui Citati ha scritto ampie e fortunate «biografie romanzate» sono tutti giganti: Mansfield, Leopardi, Manzoni, Tolstoj, Kafka, Proust, Scott Fitzgerald… Non si è tirato indietro su nulla, Citati, spingendosi verso ambiziose panoramiche di vasto raggio (la monografia su Alessandro Magno, le escursioni sull’ebraismo e sull’Islam, il viaggio dentro l’Odissea). E Berardinelli aveva ragione, ma solo parzialmente. Perché se è vero che le numerose riscritture mimetiche o camaleontiche di Citati hanno finito per uniformare le opere e gli stili degli scrittori trattati a un solo stile, il suo, evasivo e ispirato, creando morbidi feuilleton, va detto che gli si devono anche prove critiche folgoranti che risalgono soprattutto agli anni tra i 60 e i 70. Quando si parla di critica, a proposito di Citati, bisogna però fare dei distinguo, tenendo presente che Citati è stato non un critico analitico, ma un critico impressionista, pur essendo partito da studi molto severi.

Figlio di un padre di famiglia nobile siculo-parmigiana e di una madre ligure-piemontese, Citati nasce a Firenze nel 1930, a Torino frequenta la scuola dei gesuiti e poi il celebre liceo classico Massimo d’Azeglio, quello in cui si sono formati Pavese, Einaudi e Ginzburg. Amico di Calvino e del letterato-filosofo e storico delle religioni Elémire Zolla, il giovane Citati si laurea in lettere alla Normale di Pisa, dove conosce (e adora) il filologo massimo Gianfranco Contini, il quale a sua volta lo considera uno studioso di grandi promesse. Ma dopo una formazione di carattere linguistico con soggiorni in Germania (il grande maestro tedesco Gerhard Rohlfs lo vorrebbe traduttore della sua Grammatica storica), rinuncia alla carriera universitaria e si trasferisce a Roma, dove si immerge nel mondo letterario. Conosce bene Gadda, Bassani, Manganelli, il poeta Attilio Bertolucci, collabora con l’editore Garzanti, dove tra il 1955 e il 1966 costruisce la Storia della letteratura italiana di Cecchi e Sapegno, accudisce Gadda quasi come un padre pur essendo molto più giovane di lui, cura il Pasticciaccio, dirige collane, scrive risvolti, corregge traduzioni, edita i libri di Beppe Fenoglio. Per una vita è amico di Carlo Fruttero, che sarà, come Calvino, suo vicino di casa a Castiglione della Pescaia, il «buen retiro» in cui Citati è morto il 28 luglio scorso.

Citati acquisisce fama e autorità scrivendo per il «Giorno» recensioni e stroncature sulla letteratura in corso, per poi passare al «Corriere della Sera» e dal 1988 alla «Repubblica», facendo infine la spola tra i due maggiori quotidiani italiani, sempre conteso e strapagato (pur replicando gli stessi articoli a distanza di anni) specie da quando le sue biografie raccolgono consensi popolari anche in traduzione. Nel contrasto ideale tra Sainte-Beuve e Proust sull’opportunità di far entrare la vita dell’autore nell’interpretazione dell’opera, Citati si colloca senza dubbi contro il suo Marcel: per lui l’esistenza è parte integrante del testo, al punto da rendere superflui (e anzi nocivi) per la lettura gli strumenti tecnici e i metodi accademici. Con questo spirito affronta grandi e piccoli, classici e moderni, poeti e prosatori, un repertorio sterminato di italiani e stranieri, fino a Blixen, Walser, Cioran, Borges, Caproni, Fruttero e Lucentini, Kundera. Si appassiona ad autori esordienti come Paola Capriolo, Marta Morazzoni, Marco Lodoli, Alessandro Baricco. Stronca con ferocia l’Umberto Eco romanziere, definendolo un «gran buffone».

Nel 1976, in polemica con Natalia Ginzburg, Citati promuoveva un’idea del critico come figura ancillare che, a differenza dello scrittore, «non ha alcuna verità da rivelare al mondo, nessuna immagine di sé da confidare al lettore». Ma se da una parte Citati immagina la funzione critica in chiave di modesto servizio rispetto all’opera letteraria, dall’altra nei fatti non esita a trascendere l’autore, a impossessarsene fino a farlo parlare attraverso la propria voce in una sorta di parafrasi incantata e incantatoria, un’effusione spesso sublime. E questa tendenza si rivela anche nelle più acute letture di Hindermann, di Testori, di Caproni, in cui Citati fa funzionare al meglio l’orecchio e l’intuizione empatica più che gli strumenti stilistici o linguistici. Partendo da questi illuminanti esercizi di comprensione e di diffusione della letteratura contemporanea, Citati si è proposto sempre più come maître à penser e moralista, non di rado tingendo i suoi interventi di nostalgia e di risentimento per il tempo presente, ad esempio tessendo l’elogio del pomodoro (e del suo sapore di una volta) e del punto e virgola ormai in declino. Fatto sta che con la sua autorevolezza, Citati ha rappresentato per decenni il lettore modello e gran cerimoniere della grande letteratura, quello che dagli scrittori estrae una verità, anzi la Verità, altrimenti inattingibile.