Costumi relativi

Il burka, la mascherina e la relatività dei costumi
/ 14.06.2021
di Elio Marinoni

Non eadem omnibus esse honesta atque turpia, sed omnia maiorum institutis iudicari, «Il giusto e l’ingiusto non sono uguali per tutti, ma ogni cosa è giudicata secondo le tradizioni patrie».

(Cornelio Nepote,
Vite degli uomini illustri, Prefazione, 3)

Pochi anni or sono, il divieto di indossare in pubblico il burka (segnatamente in Ticino, ma anche in altri paesi europei) o sulle spiagge demaniali francesi il burkini (blend di burka e bikini designante un costume che copre la maggior parte del corpo, lasciando però scoperto il viso), fu oggetto di una diffusa polemica sui giornali dell’Occidente europeo. Successivamente, in Francia quel divieto (che paradossalmente riteneva immorale la copertura, in un contesto balneare, del corpo femminile) fu ritirato, mentre recentemente il popolo svizzero ha ribadito con un referendum (con il 51,2% dei consensi, ma il sì di ben 20 cantoni) il divieto di indossare il burka in pubblico (7 marzo 2021), anche se, nel frattempo, l’emergenza sanitaria globale ha imposto a tutti un parziale mascheramento delle proprie fattezze.

Intervenendo in quella polemica, Franco Zambelloni spezzò una lancia a favore di un atteggiamento di maggiore apertura, scrivendo su queste colonne che «quello che per noi oggi è indiscutibilmente vero, giusto e sacrosanto, tra cento anni non lo sarà più» (Burka, burkini, bikini, in «Azione 36», 5 settembre 2016, p. 9). Dal livello temporale, l’affermazione può essere estesa a quello geografico ed etnico: ciò che appare giusto o ingiusto, pio o sacrilego a certe latitudini o presso certi popoli non è considerato tale presso altri. E alla sapienza giudaico-cristiana, cui attingeva lo Zambelloni nel suo articolo, possiamo affiancare l’altro grande filone sapienziale alle radici della nostra civiltà occidentale: quello greco-latino.

Le prime tracce di un consapevole relativismo etico si trovano in un passo dello storico greco Erodoto (V sec. a.C.), grande viaggiatore e attento osservatore della varietà degli umani costumi. Narra Erodoto che il re persiano Cambise (529-521 a.C.), conquistatore dell’Egitto, era impazzito, trasformandosi in un despota gratuitamente crudele, in seguito all’empio ferimento del bue Api, l’animale sacro agli egiziani. E aggiunge: «Se si invitassero tutti gli uomini a scegliere le usanze migliori, tutti, dopo averle ben esaminate, sceglierebbero le proprie […]. Non è possibile quindi che altri che un pazzo le faccia oggetto di scherno» (Storie, III, 38, trad. di G. Paduano). A sostegno del proprio assunto, lo storico cita il diverso atteggiamento degli Indiani Callati e dei Greci nei confronti dei cadaveri dei congiunti: i primi usavano cibarsene, i secondi arderli sul rogo. Ciò che era pio per primi, era empio per i secondi; e viceversa.

La profonda diversità di costumi e di norme tra i rispettivi popoli è sottolineata in questo frammento di una commedia attica del IV sec. a.C., in cui un greco così si rivolge a un egiziano, ponendo l’accento sullo zoomorfismo di quella religione: «Né i nostri costumi, né le nostre leggi concordano. Tu ti inginocchi al bue, io sacrifico agli dei; tu fai dell’anguilla una divinità grandissima, noi una grandissima pietanza; non mangi maiale, io lo gusto più di ogni cosa; veneri il cane, io lo bastono quando lo scopro a rubare» (Anaxandrides, Città, fr. 39 Edmonds, trad. di M. Vegetti).

La posizione più estrema fu assunta da alcuni filosofi, come gli esponenti della Nuova Accademia (il più noto è Carneade), che muovendo dalla constatazione della diversità dei costumi e dei concetti di giusto e ingiusto presso i vari popoli giunsero a negare l’esistenza di un diritto naturale, scaturente dall’unicità della natura umana. È la tesi esposta con dovizia di esemplificazione, ma non condivisa dall’Autore, in un passo del De re publica di Cicerone: «Quel diritto circa il quale indaghiamo è una sorta di diritto civile, e non affatto un diritto naturale; che se questo esistesse, così come sono uguali per tutti il caldo e il freddo, l’amaro e il dolce, del pari lo sarebbero il giusto e l’ingiusto» (Cicerone, Lo stato, III, 13, trad. di L. Ferrero e N. Zorzetti). 

Di un moderato relativismo culturale fa infine professione anche il biografo latino Cornelio Nepote, citato in epigrafe: nella prefazione alla sua raccolta di vite di personaggi famosi egli se la prende con «quelli che, non conoscendo la cultura greca, sono convinti che nulla c’è di buono se non ricalca le loro consuetudini» (Vite degli uomini illustri, Prefazione, 2).

Quale lezione possiamo ancor oggi trarre da queste riflessioni della sapienza antica? Evidentemente, esse ci dovrebbero ispirare un atteggiamento di maggiore tolleranza nei confronti di abitudini comportamentali differenti dalle nostre. O, se il termine illuminista di tolleranza ci fa storcere il naso perché implica «un rapporto di supremazia tra chi tollera e chi è tollerato» (M. Cacciari in M. Smargiassi, Diabolica tolleranza, «La Repubblica», 7 maggio 2004, p. 44), possiamo sempre ricorrere al concetto più «politicamente corretto» di apertura verso l’altro. E insomma: nel momento stesso in cui denunciamo, e giustamente, le derive del radicalismo islamista, dobbiamo evitare di assumere noi stessi un atteggiamento fondamentalista di fronte a fenomeni culturali percepiti come estranei al nostro modo di essere.