Sebbene si tenda a identificare (almeno geograficamente) la grande stagione pittorica dell’espressionismo con la Francia di inizio ’900, anche un Paese come la Svizzera – apparentemente piccolo, eppure da sempre crocevia delle maggiori correnti culturali europee, e non solo – ha potuto fregiarsi di alcuni esponenti di pregio dell’arte di quegli anni, per quanto forse meno noti al grande pubblico rispetto ai contemporanei francesi.
È il caso di un nome di spicco quale quello di Jean Corty, artista proveniente dal Canton Neuchâtel che, sebbene a lungo dimenticato dai conterranei, è oggi più che mai degno di essere riscoperto – anche in virtù del suo profondo legame con il Ticino, nonché con una delle istituzioni di cui il nostro Cantone può a ben diritto dirsi orgoglioso: l’ex Manicomio di Mendrisio-Casvegno, in seguito meglio noto come ONC (Ospedale Neuropsichiatrico Cantonale).
Ma andiamo con ordine: molto prima di approdare inaspettatamente a Mendrisio, Jean Corty (il cui vero nome era Giovan Battista Corti) aveva intrapreso il proprio percorso artistico grazie a un’innata testardaggine e a una vera vocazione, che, già dalla primissima giovinezza, gli avevano permesso di non ritrovarsi impantanato nella tradizione famigliare, la quale lo avrebbe voluto vedere impiegato come stuccatore e imbianchino – così da seguire le orme di artigiano del padre Francesco Luca Corti, falegname originario di Agno. Nato nel 1907 a Cernier, nono di ben dodici figli, Jean non tardò infatti a lasciare la Svizzera per seguire un corso all’Academie Saint-Luc di Bruxelles, dove, nel 1930, avrebbe iniziato la sua produzione pittorica.
Il futuro artistico di Corty era però destinato a essere particolarmente duro e travagliato: una volta perduto il sostegno del suo mecenate Pierre Urfer, veterinario di Fontainemelon che gli aveva pagato gli studi, nel ’32 Jean si vide costretto a rientrare in Svizzera – dove, soffocato da mille frustrazioni e difficoltà economiche, oltre che dalla nostalgia per il Belgio, cominciò a mostrare i primi segni di turbe psichiche; proprio quei non meglio specificati «disturbi nervosi» che lo avrebbero condotto al ricovero dapprima a Ginevra e poi, nel ’33, a Casvegno.
Eppure, fu proprio durante la sua permanenza presso la struttura psichiatrica che Corty trovò l’ambiente ideale per lo sviluppo della propria arte, grazie soprattutto all’incoraggiamento e al supporto del Dottor Olindo Bernasconi, medico aggiunto all’ospedale e convinto sostenitore delle terapie occupazionali e dell’arte come ausilio alla guarigione. E proprio al Dr. Bernasconi Corty avrebbe lasciato molti dei suoi quadri, che oggi costituiscono la maggiore collezione di opere dell’artista; il che porta a pensare che la struttura di Casvegno fosse già allora all’avanguardia nell’ambito delle cure psichiatriche, nonché contraddistinta da un approccio al paziente più umano e compassionevole rispetto ad altre realtà internazionali del tempo.
È interessante notare come, da un punto di vista grafico, i numerosi quadri realizzati da Corty nell’arco di questo periodo tanto produttivo paiano mostrare curiose affinità con il suo stato emotivo di quegli anni: accanto alle incredibili esplosioni di colore vivissimo e alle forme ardite e svettanti tracciate da Jean sulla tela, si può infatti notare una certa instabilità di fondo – come se, per quanto palesemente libere e sovversive, le figure disegnate dall’artista (non solo quelle umane, ma anche le forme architettoniche) fossero costantemente in bilico, in una sorta di perenne sbilanciamento che rischia di minarne il delicato equilibrio.
Del resto, non è un caso che Corty abbia dovuto lottare a lungo per liberarsi dalle proprie angosce: sebbene dimesso da Casvegno nel maggio del 1934, vi sarebbe stato nuovamente ricoverato tra il 1937 e il 1941. Tuttavia, l’isolamento forzato dell’artista sarebbe stato ravvivato dalla presenza di vari amici ed estimatori (tra gli altri, lo scrittore luganese Vinicio Salati e il collega pittore Libero Monetti), forse in grado di lenire almeno in parte il dolore che il mancato successo della propria opera avrebbe potuto instillare in Jean; curiosamente, fu proprio a Mendrisio che egli decise di modificare il suo cognome in «Corty», forse in un ultimo omaggio all’amato Belgio.
Purtroppo, la morte prematura del Dr. Bernasconi (nel 1941), ebbe, com’era inevitabile, gravi ripercussioni per Jean, il quale venne definitivamente dimesso dall’ospedale del proprio mentore e si ritrovò solo, a condurre una vita perlopiù sregolata a Lugano e dintorni. Proprio qui avrebbe trovato la morte nell’aprile 1946, ad appena 39 anni, a causa di una banale congestione che lo portò a essere ricoverato per l’ultima volta a Casvegno. E sebbene la vita tanto tormentata abbia condotto i critici a bollare la sua produzione artistica come «discontinua», dopo molti anni di relativa oscurità oggi Corty viene finalmente riscoperto dal grande pubblico, tanto che nel 2020 la Pinacoteca Züst gli ha dedicato una pregevole mostra – Jean Corty (1907-1946): gli anni di Mendrisio – incentrata proprio sul periodo trascorso a Casvegno, e allestita grazie alla collezione tuttora in possesso degli eredi di Olindo Bernasconi.
Così, a chi scrive piace pensare che, nonostante le sofferenze patite lungo tutta una vita, Jean Corty sia riuscito a trovare una qualche forma di pace e serenità interiore attraverso la sua arte – a Mendrisio più ancora che altrove; secondo molti, infatti, furono proprio la regolarità e sicurezza offerte dalla struttura psichiatrica a permettere a Jean di applicarsi con costanza alla pittura, trovandovi il conforto e lo sfogo di cui aveva disperatamente bisogno. E forse non è un caso che egli abbia infine «chiuso il cerchio», concludendo la sua vita proprio a Casvegno: quel luogo che, seppure tra mille tormenti, aveva sempre mostrato comprensione verso l’infelice artista – il quale, in fondo, forse aveva bisogno soprattutto di questo.