Corpi

Ai tempi del Coronavirus siamo tutti un po’ più soli: cosa faremmo per un abbraccio? Poesie, notizie e messaggi social possono accompagnare le nostre nuove vite
/ 16.03.2020
di Simona Sala

«Rimaniamo distanti oggi per abbracciarci con più calore domani. Tutti insieme ce la faremo». È stato un trionfo immediato. Le parole del Presidente del Consiglio dei ministri della Repubblica Italiana Giuseppe Conte, pronunciate la sera di mercoledì 11 marzo in un intransigente discorso alla nazione, in un attimo hanno scatenato la fantasia (da chi in modo ironico a chi non senza una certa malizia, improvvisamente apprezzando le doti fisiche dell’avvocato) di migliaia di utenti dei social, forse ancora più arguti del solito a causa dell’inerzia prolungata (e promulgata). Mentre su Instagram nasceva una pagina dal nome «lebimbedigiuseppeconte» – sui social è semplicemente Beppe, o Giuseppi, à la Trump – un’utente di Twitter si chiedeva come si potessero trattenere le lacrime davanti a un discorso del genere.

Ed è proprio questo il punto. Se una frase in fondo banale (che in tempi non sospetti come quelli in cui siamo stati catapultati ci farebbe tutt’al più pensare alla cartina metallizzata che avvolge i Baci Perugina) è sufficiente per tirare in ballo emozioni e plausi, per commuovere le masse e per invocare – sempre via social – che il politico pugliese venga definitivamente consegnato alla storia, vuole dire che è stato toccato un nervo scoperto, che qualcuno ha parlato esattamente di quello che ci manca, di ciò che in questa insolita èra densa di dinieghi (non possiamo stringerci la mano, né baciarci, non possiamo abbracciarci né sederci vicini, né andare al pronto soccorso, non dovremmo viaggiare, né mangiare dallo stesso piatto o bere dallo stesso bicchiere…), non possiamo fare.

È passato assai meno di un mese, eppure abbiamo dovuto non solo scendere giustamente a patti con il concetto del social distancing, mantenendo una inusuale distanza di 1, 1.5, 2 o addirittura 4.5 metri (a seconda dei pareri) dal prossimo, addirittura dai propri cari, ma ci ritroviamo a lavare e disinfettare le mani di continuo come dei forsennati, ci scansiamo sui marciapiedi, disposti a cedere il passo, e giriamo con il volto nascosto dalle mascherine. Tutto ciò in un’Europa che un’ora dopo l’altra assume sempre di più i confini di quarant’anni fa, e che stentiamo a riconoscere.

Un abbraccio. Cosa daremmo per cancellare la nostalgia di quell’abbraccio evocato a mo’ di premio durante un discorso a una nazione in stato di emergenza? Come vorremmo potere ripetere, convinti, i versi della poetessa tedesca Ingeborg Bachmann, quando in La Boemia è sul mare, afferma che «Confino ancora con un’altra parola e un’altra terra, /confino, per quanto poco, con tutto, sempre più»? Noi, invece, all’improvviso (cosa sono una manciata di giorni?) ci siamo ritrovati sempre più confinati, relegati al confino famigliare o individuale, con check point presidiati da camici bianchi all’ingresso degli ospedali e con nuove linee di demarcazione, come le strisce adesive gialle appiccicate per terra davanti alla cassa dei supermercati.

Le dogane minori sono sbarrate, e in un attimo si è ricreato l’«al di là» che una manciata d’anni aveva finito per cancellare con il trattato di Schengen – nonostante le diffidenze iniziali – riuscendo nuovamente a omologare popoli per loro natura fratelli (e ci si sovviene della dolce descrizione di Giorgio Caproni in Confine: «Confine diceva il cartello / cercai la dogana, non c’era / non vidi dietro il cancello / ombra di terra straniera»).

E che dire di tutta la serie di verbi cancellati dal vocabolario della nostra quotidianità? Che ce ne facciamo ormai di parole come «sfregare, sfiorare, accarezzare, stringere, toccare, baciare», se tutte queste cose le possiamo solo narrare o desiderare? Se all’improvviso sono ammantate di un minaccioso senso di contagio? Guardiamo i nostri corpi, quelli che ci appartengono, così soli, privati di così tante azioni, e quelli altrui, che però sono lontani, sempre più rari, in un tempo a sua volta rarefatto, su cui abbiamo perso il nostro presunto controllo, perché non possiamo più conoscerne le dinamiche, caratterizzate come sono dall’incertezza…Senza la possibilità della vicinanza, all’improvviso ci rendiamo conto che siamo del tutto corpi solo nella misura in cui possiamo averne conferma da un altro corpo. Infatti, a cosa corrisponde un altro corpo, se non a un altro essere umano?Eppure, proprio nel momento del nostro smarrimento maggiore, quello che vede tutti noi accomunati nientemeno che con il mondo intero da un sottile sentimento di angoscia, nel frangente in cui un abbraccio sarebbe un balsamo all’anima, ci ritroviamo dolorosamente soli e sguarniti dentro ai nostri corpi proibiti.

Qualcuno, con più forza o ottimismo di altri, con occhi forse più sognanti, vede il lato positivo di questo isolamento, del temporaneo esilio anche fisico, e affida questo timido piacere a una poesia, come Mariangela Gualtieri nella recentissima Nove marzo duemilaventi: «Questo ti voglio dire / ci dovevamo fermare. / Lo sapevamo. Lo sentivamo tutti / ch’era troppo furioso / il nostro fare. Stare dentro le cose. / Tutti fuori di noi. / Agitare ogni ora – farla fruttare» oppure «E c’è dell’oro in questo tempo strano. / Forse ci sono doni. / Pepite per noi. Se ci aiutiamo». Per altri invece lo stato di sospensione psicologica e fisica ha lo stesso sapore di sconsolata inesorabilità che provano le sorelle Claire e Justine (Charlotte Gainsbourg e Kirsten Dunst) in Melancholia, il film di Lars von Trier del 2011 in cui si raccontano le ore che precedono l’inevitabile collisione di un pianeta con la terra. Con la differenza (e non è poco) che la nostra collisione non è calcolabile né annientatrice.

Fa allora tenerezza il video su TikTok della ragazzina italiana che si prepara davanti allo specchio, borsetta, giacca e rossetto, e alla madre, che scocciata le chiede dove crede di andare, visto che c’è il coprifuoco, risponde civetta «A farmi un giro in cucina»! La voglia di sentirsi, il desiderio di non rinunciare ad essere individui, un’età da viversi nonostante tutto, dovrebbero esserci da esempio, dovrebbero riuscire a dare anche a noi la forza di pazientare in attesa di quell’abbraccio che, al termine di un vuoto attonito da riempire ora dopo ora, sarà ancora più caloroso, bello, e soprattutto, umano.