Berlino, 23 gennaio 1945. Wilhelm Furtwängler, il più famoso musicista rimasto nella Germania nazista, dirige il suo ultimo concerto con la Filarmonica. Dopo che le bombe alleate hanno raso al suolo la Vecchia Philharmonie sulla Bamburgerstrasse, i Berliner, unici musicisti esentati dal macello della guerra totale, suonano nell’Admiralpalast, un teatro per l’operetta tutto velluti appassiti. A causa degli allarmi aerei il concerto inizia presto, alle tre del pomeriggio. «Tutto esaurito. Durante il secondo movimento della (sinfonia in) Sol minore di Mozart salta la luce. Qualche lumino intermittente mostra Furtwängler che continua a dirigere. I violini proseguono, poi si fermano. Furtwängler fa un inchino e lascia lentamente la bacchetta. Il pubblico esce a fumare. I musicisti circondano il direttore come animali spaventati. Dopo un’ora torna la luce». Si riprende con la Prima di Brahms, «come se la bellezza mozartiana, la beatitudine stessa, non avesse più posto in questa città».
Il resoconto di quella sera, scritto dalla giornalista-violinista Karla Höcker, ci aiuta a capire come i tedeschi, caduti nell’abisso che loro stessi avevano scavato, ascoltavano la Filarmonica e il loro direttore con fede disperata. Dopo quel concerto Furtwängler sarebbe fuggito nella Confederazione svizzera, accolto a Ginevra dal suo ammiratore Ansermet, stabilendo casa a Clarens. A guerra conclusa avrebbe subito un celebre processo di «denazificazione», che riteneva immeritato («il mio rimanere qui è la miglior prova del fatto che c’è ancora un’altra Germania… io stesso sono stato messo dal destino in una condizione più onesta di altri tedeschi»).
I suoi nemici sottolineavano il fatto che era rimasto il «solo», approfittando del forzoso esilio dei suoi colleghi maggiori (Bruno Walter, Otto Klemperer, Fritz Busch, Erich Kleiber), e delle grandi somme ricevute per la sua attività dalle casse del Reich. I sodali, fra i quali il grande violinista-umanista ebreo Yehudi Menuhin, riconosceranno il fatto che sarebbe stato più facile e lucroso emigrare in America, piuttosto che dirigere (senza fare il saluto) davanti ai vertici nazisti. Ma Furtwängler, nato in una grande famiglia di intellettuali, era nutrito di idealismo romantico: «il nostro regno non è di questo mondo», «suoni e melodie parlano la lingua più alta del regno dello spirito», scriveva il musicista-novelliere E.T.A. Hoffmann.
L’eccellenza dei Berliner fu il cavallo di Troia che il fanatico Ministro della Propaganda e dell’Illuminazione Goebbels inviò nei paesi alleati e occupati. Furtwängler lo fece parecchio irritare, difendendo Paul Hindemith e proteggendo musicisti non ariani, ma non poteva evitare di diventarne strumento. Comunque per i tedeschi sopravvissuti, il direttore della Filarmonica fu il difensore della «Germanità», intesa come ricerca ossessiva dell’espressività. All’opposto dello stile oggettivo della sua bestia nera, Arturo Toscanini, che alle elucubrazioni intellettuali sull’Eroica, rispondeva: «per qualcuno è Napoleone, per altri una battaglia filosofica, per me un allegro con brio». «Espressivo» che scricchiolava nell’equilibrio con i solisti o nell’avventurosa precisione degli attacchi. Ma quando poteva liberare il suo melos giungeva dove dolore e grandezza sono ricerca di «assoluto».
Le incisioni straordinarie captate dagli ingegneri della Corporazione radiofonica del Reich, fra il 1939 e il ’45, ora perfettamente godibili nella digitalizzazione pubblicata dai Berliner, non sono solo l’acme della sua arte interpretativa ma anche la colonna sonora della Storia – i nastri, celati per decenni negli archivi sovietici, furono restituiti dopo il crollo del Muro di Berlino. Vengono i brividi a sapere che su un magnetofono AEG K5 l’inquilino del Nido dell’Aquila di Berchtesgaden, il Führer, ascoltava come noi una Quinta di Bruckner trascendentale. Nulla però sorpassa il finale della Prima di Brahms, unico dei quattro tempi superstiti di quell’ultimo concerto all’Admiralpalast. Nel crepuscolo tutti suonano come se non ci fosse un domani.