Bibliografia
Edizione di riferimento (dalla mia biblioteca): Benvenuto Cellini, Vita, Milano, Rizzoli, 1954.


Controverso Cellini

Trattati/7 - Benvenuto Cellini fu orafo, scultore e scrittore
/ 28.09.2020
di Gianluigi Bellei

Benvenuto Cellini (Firenze 1500 – 1571) è uno dei maggiori orafi di tutti i tempi. Lavora dapprima a Roma poi si trasferisce alla reggia di Francesco I a Fontainebleau dal 1540 al 1545. Qui realizza la celebre Saliera in oro e smalto, oggi al Kunsthistorisches Museum di Vienna. Commissionata dal re Francesco I di Francia consiste di due elementi separati per contenere il sale e il pepe. Il sale, estratto dal mare, è rappresentato da Nettuno con il tridente e il pepe, generato dalla terra, da Anfitrite con una cornucopia. L’opera richiede mille monete d’oro per essere realizzata. L’artista inizia in seguito a lavorare come scultore eseguendo il monumentale bronzo che rappresenta Diana oggi al Louvre. Ritorna a Firenze e fonde il Perseo per la Loggia dei Lanzi, numerose statue e il busto colossale di Cosimo I.

Giorgio Vasari nelle Vite lo descrive «animoso, fiero, vivace, prontissimo e terribilissimo». In effetti la sua vita è particolarmente tribolata. A parte il periodo dal 1558 al 1560 durante il quale prende gli ordini minori per poi farseli togliere per sposare la sua governante Piera de’ Parigi nel 1565, per il resto il suo è un curriculum vagamente «criminale». Incappa nella giustizia almeno quattro volte e per due finisce in carcere. Viene accusato, forse a torto, di essere scappato con il tesoro papale durante il Sacco di Roma del 1527. Nel 1532 ferisce due uomini in una rissa, nel 1534 uccide l’orafo Pompeo de Capitaneis suo rivale, e infine nel 1557 viene incolpato di sodomia per un fatto accaduto cinque anni prima. Secondo Rudolf e Margot Wittkower, Cellini non è affatto «quell’eccezione che si immagina» come si evince dagli archivi di polizia. Il suo resta un caso eclatante perché è raccontato nella Vita di Benvenuto di M.° Giovanni Cellini fiorentino scritta per lui medesimo in Firenze.

Vincenzio Borghini in una lettera al Vasari del 14 luglio 1564 lo definisce «pazzo spacciato» e in effetti è personaggio controverso. Partecipa alla disputa sul primato delle arti organizzato dallo storico e filologo fiorentino Benedetto Varchi nel 1547. Varchi chiede un parere scritto a diversi artisti. Rispondono Tribolo, Pontormo, Bronzino, Michelangelo, Tasso, Francesco da Sangallo e, appunto, Cellini. La sua lettera del 28 gennaio 1547 è sicuramente la più gustosa, scritta in vernacolo fiorentino. Il primato, a suo avviso, va alla scultura perché è «maggiore sette volte» della pittura e perché una statua deve avere otto vedute. «La differenza, scrive, che è dalla scultura alla pittura è tanta quanto è dalla ombra e la cosa che fa l’ombra».

Fra il 1565 e il 1567 si dedica a un Trattato dell’Oreficeria e a un Trattato della scultura stampati nel 1568. Secondo lui il disegno dipende dalla scultura dato che esso «è l’ombra del rilievo» e il rilievo è il padre di tutti i disegni.

Ma il suo scritto più singolare è la Vita redatto tra il 1558 e il 1566. Il codice originale si trova alla Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze. Un racconto fantasmagorico, onirico, tutto incentrato sull’apologia di se stesso. Francesco De Sanctis nella Storia della letteratura italiana scrive: «è divoto come una pinzochera, e superstizioso come un brigante. Non ha ombra di senso morale, non discernimento del bene e del male… bugiardo, millantatore, audace, sfacciato, pettegolo, dissoluto, soverchiatore…». Per Cellini l’artista è al di sopra della legge e può fare qualsiasi cosa.

Mirabili le pagine dedicate al Sacco di Roma dalle quali si evince che Cellini ha combattuto in prima persona a fianco del papa Clemente VII della famiglia Medici. Ma le più famose sono sicuramente quelle dedicate alla fusione del Perseo. Una sorta di corpo a corpo con le avversità e gli elementi naturali nel quale Cellini appare come un eroe. Una lotta contro il fuoco che minaccia di far crollare il tetto, il vento, la pioggia, «tanto più che la mia forte valitudine di conplessione non potette resistere, di sorte che e’ mi saltò una febbra efimera addosso, la maggiore che inmaginar si possa al mondo, per la qual cosa io fui sforzato andarmi a gittare nel letto». Bruno Maier nelle note all’autobiografia sostiene che questo episodio è sicuramente il più bello di tutto il libro e forse più bello in «senso assoluto della medesima statua compiuta».