«C’erano una volta (e se ne trova ancora qualcuno) i direttori-tiranni, che comandano e ordinano inflessibili che cosa fare e come. In generale è un atteggiamento che si è molto smussato, ma a me interessa altro: quando con un’orchestra sboccia una tale intesa che davvero iniziamo a fare musica insieme. Non è più un flusso unidirezionale podio-leggii, ma uno scambio costante; l’orchestra ispira, sprigiona un suo animo, idee sue, un suono suo, e io mi lascio guidare da tutto ciò, pensando: come le mie idee possono liberare, esaltare ulteriormente le qualità che l’orchestra mi sta mettendo davanti? Quando accade non serve quasi più parlare – talvolta, quando proprio non riesco a farmi capire da certi ensemble, ricorro a immagini, colori, idee pittoriche o narrative. Quando ci si capisce immediatamente, è come ragionare con una stessa testa e sentire con un medesimo spirito. Questa, artisticamente parlando, la chiamo amicizia. Con l’OSI è accaduto fin dall’inizio: sento di aver stretto con essa un legame di amicizia».
Riflessione lunga e articolata, ma Krzysztof Urbanski (nella foto sul palco del LAC con l’OSI) vuole puntualizzare con la massima precisione possibile perché ha accettato, dopo esserlo stato per sei anni alla NDR Elbphilharmonie, l’incarico di Direttore Ospite Principale della formazione ticinese, rapido coronamento di un sodalizio iniziato quattro anni fa. «Artisticamente parlando, l’OSI ha un organico più cameristico, perfetto ad esempio per la mia idea di Beethoven. Quando però abbiamo affrontato una grandiosa partitura sinfonica come Star Wars, che ormai è da considerare a tutti gli effetti un classico del Novecento, ho constatato come l’OSI abbia profondità e potenza, sappia sprigionare quelle legature e quei colori che ci consentiranno di affrontare meravigliosamente anche il grande repertorio romantico e tardo ottocentesco, tra cui sicuramente la seconda sinfonia di Brahms e la quarta di Ciajkovskij».
Quarant’anni compiuti lo scorso 17 ottobre, il maestro polacco vanta già una carriera blasonata, nonostante i primi passi sulla via dell’arte furono abbastanza casuali e ondivaghi: «Avevo un vago desiderio di studiare musica, ma senza nessuna idea precisa e senza nessuno in casa che potesse darmi dei suggerimenti. Mi dissero solo: “Prova con la chitarra, è uno strumento bello, facile”. Non c’erano più posti e mi ritrovai nella classe di corno. Intanto ascoltavo solo pop: adoravo i New Kids on the Block, antesignani delle boyband come i Take That, poi passai a Michael Jackson».
La folgorazione avvenne quando ricevette la colonna sonora del film L’immortale amata, dedicato a Beethoven e accompagnato dalle sue musiche. «Per due anni non ascoltai altro, mi si era aperto un mondo. Poi arrivò Richard Strauss: stavano passando alla radio un brano strepitoso, cercai al volo di registrarlo ma rimanevano solo i cinque minuti finali e non annunciarono il titolo. Fu il mio insegnante di Storia della Musica a rivelarmi che si trattava del Don Juan di Strauss». Neppure l’approdo sul podio fu lineare: «Mentre suonavo il corno francese iniziai a studiare composizione, il che implica soprattutto l’analisi delle opere dei grandi autori. Presto capii che quanto scrivevo era nettamente inferiore a tanta musica già esistente e quindi mi domandai se stessi facendo un qualcosa di utile oppure di superfluo; il giudizio verté rapidamente sulla seconda opzione e abbandonai la composizione».
Però fu proprio cimentandosi come compositore che scoprì di avere talento, ma come direttore: «Abitualmente gli studenti di composizione vengono chiamati a far eseguire dei propri brani. Io lo feci con un ensemble del Conservatorio di Varsavia; come ormai si sarà capito, i brani non entusiasmarono né il pubblico né me, ma fu l’atto stesso di dirigere a rapirmi. Poter condividere idee con altri musicisti, creare un suono con tanti strumenti mischiando colori, timbri, intrecciare linee melodiche e armonie: fu un’esperienza inebriante; in quel momento capii che cosa avrei voluto fare da grande: il direttore».
È cresciuto ascoltando i grandi maestri («Quando ascolti Karajan o Bernstein non puoi non essere soggiogato dalla loro grandezza, magari anche senza condividere tutte le loro scelte interpretative; mi sono ritrovato tante volte a pensare: non farei suonare un certo passaggio così, ma è indubbio che suona benissimo»), ma solo uno è stato un vero riferimento: Claudio Abbado. «La sua capacità di creare un suono cameristico anche con un’orchestra di novanta strumentisti era folgorante: l’impasto generale era splendido, ma al contempo riusciva a far percepire ogni linea interna, ogni dialogo tra le sezioni. E aveva un sacro rispetto della partitura, un atteggiamento quasi religioso nel ricercare il pensiero autentico dell’autore: è un aspetto che condivido totalmente, perché il mio primo approccio sul podio è stato influenzato dai trascorsi studi di composizione, che mi portavano a guardare a uno spartito, prima ancora che da interprete, da «collega», attento ai processi compositivi che avevano portato a un certo esito più che al solo esito definitivo e compiuto». Paradossalmente, ad aiutarlo sono stati alcuni «cattivi» maestri: «Assistendo, da studente, a tante prove, vedevo chiaramente quando l’orchestra suonava male, un’orchestra che magari avevo ammirato altre volte per la sua qualità. Allora osservavo ancor più attentamente i gesti, i modi, le parole di chi era sul podio e mi dicevo che avrei evitato di replicarli, se provocavano nei musicisti certe reazioni».
Nonostante ormai il suo nome luccichi nel firmamento concertistico internazionale, Urbanski confessa candidamente di ascoltare, da dopo la pandemia, quasi esclusivamente musica pop: «Però non dirigerò le versioni sinfoniche dei Queen o dei Pink Floyd, secondo una moda che sta attecchendo in varie parti d’Europa: per me sono due dimensioni nettamente separate, è un po’ come differenziare il lavoro – la classica – e il tempo libero – pop e rock. E credo che l’orchestra possa sì suonare benissimo, ma non rendere appieno il genio unico e particolare di un Freddie Mercury». Rispetto a tanti colleghi (non solo ad azzimati), Urbanski colpisce per il look sbarazzino (ciuffo ribelle, maglietta nera attillata sotto la giacca) e il fisico atletico: «Sono un fanatico degli sport: calcio, surf, kitesurf, nuoto, sci, corsa, palestra. Dirigere è un’attività fisica, ci si stanca non solo mentalmente: mi capita talvolta di finire una prova ed essere esausto a livello muscolare e articolare più che cerebrale; per questo è importante essere tonici e reggere davanti all’orchestra anche a livello fisico. Penso che a Lugano, con la sua natura e i suoi luoghi meravigliosi, sarà bellissimo fare sport».