Bibliografia
Carol Joyce Oates, Ho fatto la spia, Milano, La Nave di Teseo, 2020



Con l’American Dream nel sangue

Nel suo nuovo romanzo la scrittrice Carol Joyce Oates affronta magistralmente il tema della questione razziale
/ 20.07.2020
di Luciana Caglio

La coincidenza può sembrare fortuita, ma non lo è. L’ultima opera narrativa di Joyce Carol Oates esce, nella traduzione italiana, Ho fatto la spia proprio mentre la brutale uccisone di George Floyd riporta alla ribalta l’irrisolta questione razziale negli USA, con ripercussioni e derive sul piano mondiale. Ma, per l’autrice, di cui è risaputo il militante antitrumpismo (evita di scriverne per intero il nome, come fosse una parolaccia), il razzismo rappresenta una costante nella realtà americana: una violenza che crea violenza. Qualcosa che la Oates, classe 1938, ha vissuto ininterrottamente, sia da cittadina sul fronte civile sia da scrittrice sul fronte creativo. Ne ha ricavato la materia prima per una quarantina di romanzi e centinaia di racconti, dove affrontando i grandi temi sociali, razzismo, povertà, rivendicazioni femministe sceglie una strada tutta sua. Non la denuncia, imposta dall’impegno ideologico, bensì l’invenzione letteraria ad ampio respiro, che supera i fatti del momento e li trasforma in simboli senza tempo.

Pubblicato l’autunno scorso, il romanzo della Oates, s’intitola nell’originale My Life Like a Rat, e rat, in inglese significa anche tradimento. Ed è, appunto, la storia di un tradimento, commesso dalla protagonista Violet: Rue Kerrigan che, dodicenne, infrange il tabu dell’omertà familiare. Ha visto, casualmente, due suoi fratelli ripulire e seppellire l’arma di un delitto, una mazza da baseball insanguinata, con cui avevano massacrato un ragazzo di colore, e lo rivela. Diventa una spia, ingenuamente, senz’avvertire la gravità di un gesto inammissibile, in un ambiente dove vige la regola del silenzio. Qual è una famiglia irlandese emigrata nella cittadina di South Niagara, al confine con il Canada.

Qui, se trova lavoro e un modesto benessere economico, stenta però a integrarsi in un diverso tessuto sociale, insomma approfittare dei vantaggi di un’«American way of life», all’insegna della libertà e della tolleranza. Ne assorbe, invece, gli influssi negativi, l’arrivismo, la violenza e, in particolare il razzismo, con il quale i Kerrigan devono fare i conti. Da un lato ne sono vittime, loro stessi come minoranza. Dall’altro, ne diventano protagonisti, come succede ai fratelli di Violet che, uccidendo un adolescente nero, ottengono paradossalmente la solidarietà della maggioranza bianca di South Niagara. In città si diffonde la versione dell’incidente, poi smentita in tribunale alla luce di testimonianze inconfutabili. I due fratelli finiscono in carcere.

Anche nei confronti di Violet scatta una condanna. Così ha deciso il clan familiare, chiuso a riccio sotto il dominio del padre-padrone, detentore di un potere maschilista incontrastato. Ma la Oates, con raffinata accortezza psicologica, evita di calcare la penna facendone lo stereotipo del despota e basta. Ne delinea una fisionomia più complessa. È l’autoritario che incute rispetto e, in pari tempo, trasmette sicurezza e protezione, persino affetto. Magari in forma rude, come quello rivolto a Violet, la figlia prediletta. Che l’ha tradito e si merita una pesante punizione. Diventerà una vera e propria persecuzione: «Perché la famiglia è uno speciale destino, dal quale non può esserci scampo».

Violet viene espulsa, spedita «come un pacco», nella vicina Oriskany, presso una zia. È la prima tappa di un esilio che sarà definitivo. Inutili i tentativi di ristabilire un contatto, neppure con la madre. Le sue lettere, i biglietti d’auguri per le ricorrenze rimangono senza risposta. Soltanto una sorella riesce, di nascosto, a telefonarle. Resta sola, ad affrontare una precoce indipendenza, che la trova impreparata e fragile, esposta alle minacce che spettano proprio alle donne. Lo zio, di cui è ospite, la molesta, costringendola a fuggire. Sarà poi affidata a una casa protetta, gestita dai servizi sociali. Per fortuna, può andare a scuola. Lo studio le piace, e ci riesce. È un barlume di normalità, ben presto oscurato dalla fama di spia e «puttanella» che la insegue. Oriskany dista appena 130 chilometri da South Niagara, le dicerie volano. Un docente di matematica sembra offrirle protezione. Sarà, di nuovo, una trappola.

Adesso non è più un’adolescente, ma una giovane donna, chiamata ad assumersi la responsabilità dell’indipendenza. Le serve un lavoro per mantenersi e pagarsi i corsi serali all’università. Le serve la lontananza dalle meschinità e dai pettegolezzi della provincia. Si trasferisce a New York, dov’è possibile rifarsi un’identità. Violet ci prova, ma a proprie spese sul piano morale. Trova un lavoro part time che le consente, la sera, di seguire le lezioni all’università. Di giorno fa le pulizie in case di facoltosi uomini d’affari che, oltre alla tariffa ufficiale, le danno buone mance. Sembra la clausola di un implicito contratto. «Se perdi in dignità guadagni in soldi», le suggeriscono le colleghe. Agli inizi Violet lo sottoscrive, ma poi prevale la ribellione. Restituisce i regali e si licenzia.

Una volta ancora riesce a farcela, superando non soltanto i pregiudizi di un clan familiare di vecchio stampo, ma anche quelli di una società evoluta e tuttavia maschilista. Con ciò Violet diventa un emblema vincente. Ed è del resto, il messaggio che J.C. Oates vuol trasmettere affidandosi a una magistrale reinvenzione del vero, in pagine coinvolgenti, che illustrano la realtà com’è e anche come dovrebbe essere. Da cui emerge un filo di ottimismo. «Ma dov’è finito il sogno americano: non è diventato un incubo?»: le hanno chiesto gli intervistatori. Ha risposto: «Soprattutto nel momento attuale, questo sogno sembra irraggiungibile. Ma è una risorsa che appartiene al nostro DNA».