Con la rabbia dei giusti

Riot Grrrls, il sottogenere musicale nato dall’indie rock e dall’hardrock punk, stravolgono il politicamente corretto
/ 05.07.2021
di Muriel Del Don

Chi sono le Riot Grrrls, pioniere di un movimento (musicale e sociale) che dagli anni novanta non smette di influenzare le nuove generazioni? Difficile scegliere chi tra le sue ribelli capostipiti sia stata la più emblematica ma indubbiamente Kathleen Hanna si distingue dalla massa. Simbolo di un «femminismo anni novanta» che si stava affermando con forza e leader del gruppo punk Bikini Kill, Hanna non ha mai avuto paura di gridare quello che tanti (ma anche tante) non osavano nemmeno sussurrare. All girls to the front! invocava la cantante e attivista statunitense durante i concerti delle Bikini Kill, ricordando a tutte le ragazze presenti nel pubblico che la scena non è proprietà esclusiva del patriarcato ma uno spazio aperto alla diversità, un luogo dove esprimersi godendo di una libertà di parola che dovrebbe essere garantita a tutti.e.x.

I concerti del gruppo diventavano occasione privilegiata per incarnare ed espandere vere e proprie lotte politiche in favore di un femminismo inclusivo che intendeva esprimersi in nome dei gruppi oppressi di cui le donne fanno parte integrante. In molti dei loro testi, Hanna e compagne affrontano temi scottanti quali la violenza domestica o sessuale, i disturbi alimentari o ancora gli abusi subiti sul posto di lavoro e la libertà di fare del proprio corpo ciò che meglio si crede. Formate quasi esclusivamente da donne animate da una volontà rivendicata di affrontare temi scottanti che la società patriarcale vorrebbe sotterrare, le band appartenenti al movimento Riot Grrrls, nato agli inizi degli anni novanta nello stato di Washington, volevano anche rivendicare la loro legittimità musicale. Sì, perché Bikini Kill e compagne (L7, Bratmobile, Heaven to Betsy e successivamente Babes in Toyland o Hole) non sono solo delle guerriere che lottano per la parità dei diritti e l’abolizione del sessismo, ma anche delle musiciste carismatiche che vogliono riappropriarsi di un genere, il punk, che fino ad allora sembrava essergli proscritto. Quello che accomuna tutte queste band è il desiderio spasmodico di liberare la parola proponendo un’immagine forte e alternativa del genere femminile (nel senso lato del termine). Le donne (gruppo ancora una volta da intendere secondo una prospettiva di genere e non in quanto fatto biologico), relegate troppo spesso al ruolo di comparse (o muse), diventano infine protagoniste del mondo della musica punk che trasformano in grido di battaglia e motore di un cambiamento sociale che intende spodestare il patriarcato in favore di un’eguaglianza non più fittizia ma reale. Le rivendicazioni delle Riot Grrrl non devono però essere confuse con quelle legate al femminismo essenzialista che ritrova nel corpo biologico il solo indizio di una femminilità innata e immutabile. Quello che le Riot vogliono è piuttosto decostruire l’immagine stereotipata e retrograda del genere femminile associato alla sottomissione e a una docile accettazione, una «femminilità» infine libera dalla prigionia del corpo esclusivamente inteso come strumento di procreazione. Secondo la loro prospettiva, ogni forma di discriminazione: razziale, sessuale o di genere deve essere abolita in favore di una diversità accogliente, rivoluzionaria e chiassosa. Niente girl power mainstream di facciata quindi, ma piuttosto una volontà sincera di accogliere la diversità in tutta la sua splendente eterogeneità.

A portare avanti le rivendicazioni delle Riot Grrrls troviamo oggi molte artiste che dell’inclusività e dell’ambiguità hanno fatto il loro motto, delle artiste che non vogliono essere etichettate o imbrigliate in nessun genere, musicale ma non solo. Tra queste spicca l’artista scozzese Sophie, tragicamente deceduta in gennaio di quest’anno, che ha collaborato con pesi massimi dell’industria musicale quali Madonna o Charli XCX. Del movimento Riot Grrrls Sophie possiede la forza sovversiva che la spinge ad essere sé stessa fino in fondo. La musicista, che preferisce non essere definita attraverso pronomi binari, ha affermato che essere trans significa per lei «riprendere il controllo, considerare il corpo in linea con l’anima e lo spirito per fare in modo che entrambi smettano di combattere per sopravvivere».

Già nel suo album di debutto (2018): Oil of Every Pearl’s Un-Inside la musicista scozzese affronta nei suoi brani problematiche a lei care legate all’identità, la non conformità e la reinvenzione di sé sulla base del proprio essere profondo. L’universo musicale di Sophie è unico come unica è la sua persona(lità): pop, trance e dance underground, il tutto condito da una dose massiccia di sonorità distorte e destabilizzanti che creano un sound riconoscibile tra mille. Sophie è riuscita ad attraversare i confini della pop raggiungendo una sorta di trascendenza musicale che colpisce il cuore facendolo battere con rinnovata passione. Al pari delle Bikini Kill, l’artista di Glasgow ha utilizzato il palcoscenico per promuovere i diritti delle persone trans augurandogli e augurandosi «un futuro più variegato, stimolante e significativo per noi e le generazioni che verranno».

La sua musica ha cambiato il volto della pop alternativa aprendo il dibattito su tematiche marginalizzate da una società ancora tristemente marcata dal patriarcato e dalle sue piccole certezze. Nella stessa corrente di rivendicazione identitaria ritroviamo la musicista e produttrice venezuelana Arca e la star dell’hip hop underground nonché performer, poeta e attivista Mykki Blanco. Imprevedibile, volutamente ambigua e mutante, Arca gioca con le sonorità e le referenze artistiche che vanno da David Cronenberg al seapunk fino ad arrivare all’arte barocca per creare un universo che appartiene solo a lei.

Dichiaratamente trans e non binaria, Arca afferma nel suo brano Nonbinary di fare quello che vuole quando vuole, fregandosene di quello che pensa la gente. «Sono speciale, non mi potete definire altrimenti» grida dall’alto dei suoi tacchi a spillo: più punk di così non si può! Mykki Blanco cita invece esplicitamente il movimento Riot Grrrl, queercore (Bruce LaBruce in primis) e la drag queen Vaginal Davis come sue ispirazioni e punto di partenza di un universo musicale ed estetico che rivendica una transidentità vissuta con orgoglio e fierezza.

Ad arricchire ancora ulteriormente questo reggimento di guerriere anticonformiste troviamo la rapper queer femminista svedese Silvana Imam, la diva goth-pop francese ma belga d’adozione Mathilde Fernandez e le sue sonorità imprevedibili tra canto lirico e techno hardcore o ancora la «regina mascherata della Milano by night» (come definita dal «New York Times») MYSS KETA, senza dimenticare la star dell’hip hop made in USA dichiaratamente agender e pansessuale Angel Haze. Riot grrrls are not dead, al contrario, la rivoluzione è appena iniziata!