Bibliografia

Plinio Martini, Com’era bello di Giugno a Roseto, Casagrande, Bellinzona, 2023.


Come sono belle le rose a Roseto

Un volume raccoglie cinque storie inedite di Martini scritte tra il 1943 e il 1962
/ 31.07.2023
di Natascha Fioretti

A colpire dei cinque racconti è il primo, quello con il suo endecasillabo iniziale dal quale prende il titolo la raccolta Com’era bello di giugno a Roseto (Casagrande, 2023). Roseto è un tipico, piccolo villaggio montano con il campanile, la chiesa e la scuola. «Ci sono anche molte casette, tutte piccole e dipinte con colori chiari e graziosi». E poi naturalmente, il nome non è casuale, a Roseto crescono molte rose.

A cogliere nel segno è la liricità, la prosa delicata, intensa e luminosa, con cui Plinio Martini dà corpo e sostanza al suo spirito d’osservazione, al suo sguardo ravvicinato e intimo con il quale cattura la natura, la sua essenza, i suoi movimenti permettendo a noi lettori di vederne i colori, annusarne gli odori, respirarne l’aria che tutto muove e anima. La sua prosa ci apre la porta a quel legame intimo, a quella comunione di tempi e di intenti che erano la cifra del suo mondo alpestre non ancora contaminato dalla modernità industriale e tecnologica. Da lettori si prova un profondo spirito di gratitudine per l’opportunità di rivivere i ritmi e i gesti genuini di un mondo contadino che non esiste più, che abbiamo dimenticato e con il quale non sappiamo più rapportarci mentre per Plinio Martini rappresentava la quotidianità.

La poesia ci viene incontro sin dall’inizio quando l’autore, all’epoca ventenne, ci parla dei cirri in fondo alla valle che «erano più rosa e il sole era già di molto sceso sul dorso dei monti». E si fa più intensa quando ci racconta il taglio dell’erba con la falce che rivela il mondo animale nascosto sotto i mucchi verdi: «Stendevo paziente con le mani o con la forca (oh, quanto pesante allora!) e mi piaceva sorprendere di sotto i mucchi il sonno delle locuste che, svegliate così all’improvviso, stendevano una dopo l’altra le lunghe pelose zampone e provavano incerte il primo canto. E c’erano anche i grilli, e le formiche, e i ragni, e i millepiedi, tutto un mondo di bestie ancora un po’ addormentate e qualche volta, dico la verità, avrei smesso il mio lavoro per lasciar godere loro in pace il mattino – anche a me piaceva molto rivoltarmi nelle coperte mentre aspettavo il primo sole!».

Come ricorda nella sua postfazione Alessandro Martini, professore emerito di Letteratura italiana all’Università di Friburgo, figlio di Plinio Martini, il tema del fieno e della fienagione lo ritroviamo nel Requiem per zia Domenica, ma qui ci sono una intensità e una poesia particolari che emergono prepotenti dalla penna dell’autore capace di restituire «la precisione dei gesti, l’attenzione ai diversi ritmi, alla vita del prato, all’ora del giorno...». Allargando l’orizzonte all’intera raccolta, il professore ci spiega che i racconti sono «cinque prove narrative» in cui lo scrittore – proprio come racconta Matteo Ferrari nell’intervista qui accanto – dà voce e corpo ai temi a lui cari, ai quali durante tutta la sua produzione resterà sempre fedele: il ritratto del suo paese e della sua gente. Il professore sottolinea anche come a unire le cinque diverse esperienze – risalenti al periodo compreso tra il 1943 e il 1962 – sia un’attenta e «costante ricerca linguistica e letteraria» che risalta in modo particolare nel primo racconto.

Le altre quattro – Remo, Storia di un camoscio, Vigilia di Natale, Acchiappamosche e il maiale – ci offrono una paletta vivace di temi e stili con tanto di citazioni tratte dalla letteratura italiana a lui cara – da I Promessi Sposi alla Divina Commedia. Anche i contrappunti dati dalla sua verve ironica non mancano ed emergono in particolare nell’ultimo racconto in cui la penna dell’autore si diverte a raccontare la genesi del soprannome del protagonista Antonio Scudellaro, in arte Acchiappamosche. «Un soprannome si attacca a un uomo come un francobollo, non lo lascia più fino alla tomba, e dura anche dopo. E se il malcapitato se la piglia, è come gettar benzina sul fuoco».

Ma è bella anche la saggezza contadina – o semplicemente umana – che Plinio Martini condivide con noi nella storia del camoscio Macchiascura rimasto orfano perché il Matto del paese quando era cucciolo gli uccise la madre: «Oh, l’uomo qualche volta ci sembra peggiore delle bestie. Perché gli animali di rapina uccidono per sfamarsi, e che colpa hanno l’aquila o la volpe se il Signore le ha create così? Ma l’uomo uccide spesso per odio, per vendetta, per cupidigia, o anche semplicemente per divertirsi».