Bibliografia
Giuseppe Conte, Non finirò di scrivere sul mare, Milano, Mondadori, 2019


Come è profondo il mare

Il poeta italiano Giuseppe Conte dedica i suoi pensieri e le sue riflessioni all’immensità e all’incanto del mare
/ 18.01.2021
di Guido Monti

Giuseppe Conte nella sua lunga e rilevante storia poetica, ci regala con la raccolta uscita per Lo Specchio, Non finirò di scrivere sul mare, una grande riflessione sull’uomo e sul suo rapporto con questo liquido sconfinato, in perpetuo movimento e come dice egli stesso in nota, il Mediterraneo di Ossi di seppia, tra le altre opere, è sicuramente presente come calco, flusso di pensiero sotteso, nelle dodici sezioni in cui è diviso il libro. E però per l’autore questa riflessione può prendere l’abbrivio, non certo dalle mere astrazioni libresche, ma solo dal limitare di un incontro tra l’occhio allenato allo sguardo e la linea d’orizzonte tremula che risponde col suo movimento infinito: «Non finirò di scrivere sul mare. / Perché il mare è le Sirene la cui voce / calamitante d’amore oscura / voglio ascoltare senza paura / io che non ho dove tornare, non ho un’Itaca / né Penelope né Telemaco che valgano / più del canto e delle traversate. / …».

Tutto, sempre, in questi versi inizia da quella relazione vitale e sapienziale tra l’elemento percettivo umano e quello naturale che si alza dalle profondità marine. E l’autore non fa altro che scrutare in esse, come già fece in quel gran libro che fu L’oceano e il Ragazzo, trovandovi nient’altro che i lunghi travagli e abissi della sua psiche; talvolta affinando l’udito, ode da quella massa infinita, un bisbigliare di ritorno alle sue domande aperte, ilari, vitalistiche. Scherzose come quelle dei bambini sembrano scoscendere in forma di versi nella battigia, prendere il ritmo di risacca, volere in qualche modo mischiarsi al suo moto perpetuo che dà poi tutte e nessuna risposta: «… / parlano fitto di Montecarlo, prezzi, hotel. / O mare, o mio bel / mare d’autunno / h. 11,10 / cosa ne dici tu, cosa mi dici / di felici e infelici, / ne sai qualcosa?».

Ecco allora qual è stato l’elisir di giovinezza dell’autore: aver mantenuto col mare un perpetuo rapporto per assorbirne il suo eterno principio. E certo nelle varie sezioni, vi è questo avvicendarsi di tante figure, conosciute, sconosciute, che innanzi alla sua lucente e maestosa terrazza sembrano per contro portare il peso di una fragilità senza scampo. Tra i versi stringati o dall’andatura poematica, le vite degli altri con le loro microstorie magistralmente intagliate, sembrano alimentarsi di quel blu vitreo, lontano, subirne l’influsso magnetico e di esso esserne per sempre debitrici: «… / E tu sei così solo stamattina. / h.11,02 / Quasi come me. / O come quel signore che io vedo / solo di schiena, dai capelli lunghi grigi, / … / che da un’ora e più si accende sigarette / … / Quali dolori avranno conosciuto i suoi ieri, / quali conoscerà adesso. / …».

Questo, è anche il libro dei tanti tempi, con i loro protagonisti quasi incorniciati nello spazio attrattivo e atemporale della riva, è la pagina dei tanti luoghi toccati, tutti a baciare riconoscenti uno stesso sibillino mare, sia esso indiano o ligure. Ma confrontarsi davvero con l’oceano, cercandovi struggimento, scontro o abbraccio, significa anche misurarsi col suo mito e quindi con la nostra parte più fuggevole, psicologicamente impegnativa, interiormente remota; solo in seguito potremmo godere a fondo della sua presenza, capendone i riverberi, le accensioni, la sua ferocia disumana.

Conte appunto lambisce nei suoi versi il mito, perché ha saputo entrare primariamente nel mare materiale che da sempre lo ricopre, vivendolo ed interpretando a fondo la sua «pagina rombante», come direbbe Montale. Per questo è riuscito a catturare, nella sua trama poetica, Nausicaa, l’Odisseo millenario ma anche quello contemporaneo, chiamato a ragione e con punta d’ironia «Internauta», o gli spiriti guida degli dei-natura che partecipano alle apoteosi marine, o quella sillaba pronunciata dagli avi in punto di morte, che nomina ancora mare e quindi mito, col suo tempo che è stato e che sarà: «… / pare che disse solo una parola / spirando, pare che disse solo: ma’! / Chissà se avrà visto in quell’attimo il mare, / il mare della morte e della vita / … / la barca di Caronte che traghetta / senza peso né rotta / nel buio degli inferi le folle, / o se invece volle dire: madre! / volle chiamare lei, proprio lei, / mae Annettina, / …».

Talune pagine di questo libro anche dal forte spessore etico ed ambientale, possono allora anche essere interpretate come una immensa preghiera laica rivolta a ogni uomo di buona volontà a che non sovverta definitivamente l’equilibrio marino; facendolo difatti, annienterebbe quelle stesse storie che viaggiano nelle ampolle schiumose da millenni, e quindi la nostra memoria e identità, ricacciandoci nel nulla: «… / Ci sono uomini schiavi che vorrebbero / ridurti a schiavo, profanarti / … / Ma non potranno. Per quanti / siano basta una tua onda a respingerli. / Non saranno mai chiuse / le porte del tuo tempio, mare, / così sante per chi ancora le sa vedere, / …».