«È la storia di un personaggio che si chiama Mario, che va a Roma e poi ritorna». Giulio Mozzi, a chi glielo chiede, (auto)ironicamente riassume così la trama delle quattrocento pagine con le quali, a sessant’anni, e dopo una vasta produzione di racconti, esordisce come romanziere. Il libro di una vita, frutto di ventitré anni di lavoro, lontanissimo dai romanzi che oggi vanno per la maggiore: dai gialli che scalano le classifiche delle vendite, ai testi più o meno dichiaratamente ibridati con fatti di cronaca, meglio se nera; soprattutto, un romanzo scomodo e destabilizzante, tanto che il Comitato direttivo del Premio Strega, per il quale è in lizza, ne ha indicato la destinazione solo a un pubblico adulto.
Mozzi costruisce un racconto dai tratti fortemente ambigui, capace, come solo la buona letteratura sa fare, di fornire pochissime risposte e di lasciare il lettore impantanato in un groviglio di dubbi. Mario è nato il 17 giugno (come Mozzi), vive a Padova (come Mozzi), si sposta spesso a Roma per la sua attività di scrittore e di conferenziere (come Mozzi). Mario dipende da quasi tutti i personaggi che lo circondano: è servo di Viola e del suo apparente equilibrio, tanto che (forse) la sposerà; è servo di Bianca, che lo ha lasciato prima di mettere al mondo Agnese, (forse) avuta da lui; è servo di Santiago e delle sue perversioni sessuali.
Il romanzo è scandito da quarantuno capitoli tutti centrati sulle relazioni di Mario: La storia di Viola, 1; La storia di Santiago, 1; La storia di Viola, 2; ecc., disposti in modo non lineare. Il problema, come è stato giustamente notato, è che la somma di tutte queste vicende non dà «la storia di Mario», personaggio irrimediabilmente irrisolto, condannato alle «ripetizioni» del titolo per salvarsi dalla paura di vivere; e forse proprio per questo amante dei libri lunghi e complessi, capaci di colmare i suoi vuoti esistenziali, emblematicamente riflessi dalla struttura sincopata del romanzo.
Ambiguo appare poi il tempo (tutto accade quasi sempre il 17 giugno), sempre sospeso tra un presente e un passato difficilmente distinguibili; ambigua e non identificabile è la voce narrante, tanto che è lo stesso Mario a diffidare dei racconti in terza persona, perché «non gli piace che il narratore si accomodi comodamente in una posizione esterna, per manipolare con sussiego i suoi burattini»; variamente modulati tra i capitoli, infine, appaiono lo stile e la partitura sintattica. Tutto concorre, insomma, a costruire una serie di forze centrifughe che convergono, con solo apparente paradosso, nel mettere a fuoco l’ambiguità sulla quale è precipuamente costruito il romanzo, ossia quella tra realtà e finzione, che riconduce, in ultima analisi, alla questione della percezione del mondo e della possibilità di rappresentarlo. Quanto siamo sicuri di quel che abbiamo vissuto? Mario, nel capitolo iniziale, vera e propria chiave di lettura sulla quale saranno impostate le scelte successive, è convinto della presenza di un bosso in un parco della sua infanzia a San Daniele del Friuli. Il ricordo scatta quando, da adulto, proustianamente ne incontra di nuovo il profumo. Torna su quei luoghi, ma scopre che lì un bosso non c’è mai stato. Resta pertanto da chiedersi se un ricordo di cui eravamo convinti smetta di essere vero nel momento in cui ne verifichiamo la fallacia.
Ambigua, dunque, non poteva che essere anche la conclusione del romanzo, costruita su due capitoli dai significati volutamente antitetici: nel penultimo, Mario resta ammirato dall’opera del suo amico Gas (il Grande artista sconosciuto), una sorta di Venere nascente «da acque nere e buie» che sembra almeno aprire a un orizzonte di possibilità e di rinnovamento; nell’ultimo, Mario e Santiago si rendono protagonisti dell’ennesima scena atroce, la più indicibile.
A ben vedere, l’ineluttabile destino di Mario è già tutto iscritto nella gabbia costituita dal quadrilatero delle donne che attraversano la sua vita, e per le quali appare evidente il capovolgimento del valore evocativo dei nomi. La donna (apparentemente) equilibrata e pacifica si chiama Viola; quella passionaria e tormentata si chiama Bianca. Poi, rovesciando il modello manzoniano, Agnese assume il ruolo di figlia; e, soprattutto, Lucia è l’amore giovanile di Mario, ma irrimediabilmente e precocemente perduto in un incidente stradale, probabile scaturigine di quel dolore da anestetizzare per tutta una vita attraverso la coazione a ripetere.
Bibliografia
Giulio Mozzi, Le ripetizioni, Marsilio, 2021