Primo quadro. Su un pannello sospeso a mezz’aria in un living room con suppellettili vintage (le scene sono di André Benaim) compare la scritta «Londra 1958». Rimosso il pannello, Philip (Luca Zingaretti), di professione agente immobiliare, dà il benvenuto a Oliver (Maurizio Lombardi), giornalista e autore di un libro per bambini. Con modi diretti, cordiali, Philip cerca di mettere a proprio agio l’ospite, che appare piuttosto umbratile, introverso. Dopo alcuni minuti fa il suo ingresso Sylvia (moglie di Philip, ex attrice e madre mancata, da poco tempo uscita da una crisi depressiva grazie anche alla scoperta di possedere un notevole talento figurativo), la quale si dice emozionata di essere stata scelta per illustrare il libro di Oliver.
Secondo quadro. Ricompare il pannello. C’è scritto «Londra 2015». (Gli attori del primo quadro ora danno corpo e voce a tre personaggi che hanno gli stessi nomi di quelli precedenti). Vestito soltanto di uno slip, Oliver – giornalista e aspirante romanziere che di recente è stato lasciato da Philip – si sottopone masochisticamente alle vessazioni e agli oltraggi di un marchettaro in divisa nazista (Alex Cendron). Sopraggiunge Philip per ritirare gli ultimi indumenti rimasti in casa dell’ex fidanzato. Congedato il finto nazista, tra i due si apre un’accesa discussione. Oliver supplica Philip di non lasciarlo (il loro rapporto dura da un anno e mezzo circa), ma l’altro, deciso a rompere, gli rinfaccia la pratica compulsiva di un sesso promiscuo. Dopo che Philip se ne è andato, arriva Sylvia. Amica di entrambi, la ragazza cerca di consolare l’affranto Oliver.
Terzo quadro. Siamo di nuovo nel 1958. (Da questo punto in poi le due storie procedono a scene alterne). Sylvia rimprovera il marito si essersi comportato freddamente con Oliver: le è sembrato che cercasse di mascherare un sentimento di disprezzo nei confronti dello scrittore. Philip nega di essere stato scortese ma ammette di averlo trovato sgradevolmente affettato. In un quadro successivo (quanto tempo è trascorso, esattamente?) veniamo a sapere che in assenza di Sylvia i due uomini hanno avuto un rapporto sessuale. Oliver vorrebbe rinnovare l’esperienza e intrecciare un legame duraturo, ma Philip replica con durezza che da parte sua si è trattato di un cedimento occasionale.
Oliver lo invita a riconoscere e ad accettare la parte omosessuale che è in lui. Philip nega con forza e lo aggredisce fisicamente, ma a un certo punto scoppia a piangere e lascia che Oliver lo abbracci. Avranno una storia clandestina che durerà alcuni mesi. Sarà Philip a dirlo, il giorno in cui si rivolge a uno psichiatra (Alex Cendron) perché lo «guarisca» dalla sua omosessualità e lo liberi dal ricordo di Oliver attraverso una cura drasticamente efficace: l’assunzione di apomorfina, un farmaco che alla vista di immagini pornografiche di carattere omosessuale avrà l’effetto di provocargli violenti conati di vomito.
La storia del 2015 ha un andamento più lineare e sembra concludersi felicemente. Grazie all’amichevole mediazione di Sylvia, Oliver e Philip si riconciliano. Sarà una pace duratura? Non è la sola domanda che molti spettatori – dichiarandosi perplessi o confusi – si ponevano al termine della prima rappresentazione milanese di The Pride, commedia in due atti di Alexi Kaye Campbell, pluripremiato drammaturgo inglese di origine greca. Uscendo dal teatro si chiedevano: perché i personaggi principali del 2015 si chiamano come quelli del 1958? Perché sono interpretati dagli stessi attori? Perché le due storie si sviluppano parallelamente, a quadri alterni?
Eppure dovrebbe risultare chiaro che i personaggi principali della seconda storia sono delle varianti (si potrebbe addirittura dire delle reincarnazioni) di quelli della prima. Il mutato contesto socio-culturale e le diversità del loro status (che è comunque medio-borghese) ne hanno modificato in varia misura il linguaggio e il comportamento, mantenendo però fondamentalmente inalterati alcuni dei loro tratti caratteriali (ad esempio la generosità di Sylvia e la propensione di Philip a coltivare rapporti monogamici).
Inoltre, a dispetto di una maggiore consapevolezza e libertà per quanto riguarda la loro identità e condotta sessuale, anche per i personaggi del 2015 rimane razionalmente inattingibile la natura profonda dei loro desideri. E al pari di quelli del 1958 sperimentano le difficoltà e la precarietà dei rapporti interpersonali, la separatezza e la solitudine del singolo, la forza e l’illusività del sentimento amoroso.
Nel raccontare a quadri alterni storie tematicamente affini ma distanti fra loro nel tempo, The Pride ha il merito di non voler essere né un documento sociologico né un manifesto dell’orgoglio gay. Tuttavia non mi sembra che i suoi personaggi possiedano un grande spessore psicologico. E se non mancano scene di coinvolgente tensione drammatica, non mancano neppure situazioni e parole già viste e già ascoltate. Comunque, le analogie e le differenze che suscitano la perplessità o lo sconcerto di non pochi spettatori tengono costantemente desta l’attenzione di tutti, grazie anche alla regia accurata di Luca Zingaretti e alla versatilità degli interpreti.