Chi resterà sul trono?

/ 06.05.2019
di Mariarosa Mancuso

Nove anni fa, era di maggio, il finale di Lost (l’ultima delle robinsonate pervenute, scritta da J.J. Abrams e Damon Lindelof, sempre di naufraghi su un’isola deserta si trattava, quasi tre secoli dopo l’originale) oscurò il festival di Cannes. Tutti parlavano della serie, anche i distratti e i contrari, se non altro per chiedere «Davvero vi piace? Non si capisce niente». Nessuno, a parte rari e cocciuti cinefili, commentava la Palma d’oro andata all’oscuro e noiosissimo film Lo zio Bonmeee ricorda le sue vite precedenti (quanto al nome del regista tailandese, Apichatpong Weerasethakul, ancora facciamo il copia&incolla).

Quest’anno, sempre di maggio che per gli spettatori seriali è il più crudele dei mesi (per T.S. Eliot nella Terra desolata era invece aprile: «genera lillà da terra morta / confonde memoria e desiderio») finisce Game of Thrones. GOT negli hashtag, a imitazione di Via col Vento che per gli americani è GWTW. Finisce dopo otto stagioni, e l’ultima – di sei episodi soltanto – arriva dopo due anni a stecchetto: il prezzo da pagare per una serie spendacciona sparsa tra sette regni diversi. Non sappiamo chi vincerà a Cannes, ma se non sarà Once Upon a Time in Hollywood di Quentin Tarantino, è probabile che tra un mese parleremo di chi ha conquistato il Trono di Spade dimenticando il vincitore della Palma d’oro.

La battaglia di Winterfell vista qualche giorno fa, contro le armate del Re della Notte, è la più costosa mai girata per la televisione. Molti fan hanno protestato con il regista Miguel Sapochnik perché la fotografia era troppo scura, non si capiva bene chi era chi, ed era difficile tenere il conto dei morti. A meno tre episodi dal gran finale (che sia grande, lo si spera) crescono il nervosismo e la curiosità: chi andrà a sedersi sul Trono di Spade, tra le sette casate che a Westeros guerreggiano tra loro (con tregue temporanee solo quando l’Inverno molto annunciato arriva davvero). La risposta degli showrunner, più o meno, è stata la seguente: volevate una serie capace di competere con il cinema? Allora beccatevi anche le licenze artistiche, oltre ai draghi.

I draghi non c’erano, quando Game of Thrones prese il via nel 2011: tratta dalla saga di George R.R. Martin intitolata Cronache del ghiaccio e del fuoco (Mondadori), e scritta per la tv da David Benioff e D.B. Weiss. Una televisione via cavo che viveva di abbonamenti – quindi poteva concedersi sesso e altri argomenti adulti come l’incesto – e si presentava con lo slogan «Is not tv, is HBO».

Allora le serie non erano celebrate come oggi, bisognava far notare la differenza con la tv generalista (e la HBO aveva già fatto un gran passo con I Soprano di David Chase, iniziata 30 anni fa). David Benioff vantava uno spettacolare curriculum da scrittore: era suo il romanzo La 25a ora, da cui Spike Lee ha tratto il film con Edward Norton, e La città dei ladri, ambientato durante l’assedio di Leningrado. George R.R. Martin aveva un bel seguito di lettori appassionati, gli stessi che adesso lo odiano – via internet – perché perde tempo con la televisione invece di finire la saga (mancano gli ultimi due volumi, la tv è più avanti).

I draghi non c’erano, nel 2011. C’erano solo tre uova di drago, ricevute come dono di nozze dalla bionda Daenerys Targaryen. Amorevolmente curate, anche se le davano della sciocca: «lo sanno tutti, i draghi sono estinti». E invece no, gli sputafuoco son cresciuti e si son rivelati utilissimi sia in battaglia e sia per cavalcate romantiche assieme a Jon Snow. «Draghi» di solito vuol dire fantasy, genere da cui solitamente ci teniamo alla larga. Nulla ci ha annoiato più del Signore degli Anelli: evitato il malloppo di Tolkien nell’età in cui lo si digerisce senza problemi – dopo, come dice Woody Allen dei peperoni, risulta micidiale come l’uranio impoverito – abbiamo sopportato film interminabili (presi singolarmente e in gruppo, con l’appendice dello Hobbit).

Il trono di spade non è fantasy, a dispetto di qualche presenza magica o stregonesca. Avanza con la crudeltà delle tragedie di William Shakespeare, e con cinismo narrativo fa fuori personaggi che fino a un attimo prima sembravano centrali e indispensabili. È stato un grande spettacolo. Ed è stato un grande spettacolo collettivo, anche per le attese, i dibattiti a margine degli episodi, il terrore degli spoiler. Tutto da godere, perché nel frattempo Netflix ha cambiato tutto: le serie si guardano in solitudine, abbuffandosi, chiusi nella bolla dell’algoritmo.