Christopher Boone è un quindicenne con sindrome di Asperger che vive con il padre a Swindon, una città del Wiltshire, nel sud-ovest dell’Inghilterra, a 114 km da Londra. Lì frequenta un scuola per ragazzi con disturbi neurobiologici simili ai suoi e ha un’insegnante di sostegno che si chiama Siobhan. Nutre un interesse persistente e quasi esclusivo per la matematica e l’astronomia (in rapporto all’età, le sue competenze in materia sono davvero fuori del comune).
Gli piacciono i computer e vorrebbe diventare un astronauta. Detesta il giallo e il marrone; predilige il rosso. Ha un topolino addomesticato di nome Toby al quale è molto affezionato. Ha problemi di interazione sociale, anche perché non sopporta di essere toccato e interpreta alla lettera le parole degli interlocutori, coi quali si esprime verbalmente senza doppi sensi, riserve mentali o secondi fini (asserisce con fermezza di non aver mai detto bugie). Coerentemente, non gli piacciono le metafore e le opere narrative. Tuttavia, il suo eroe è un personaggio romanzesco: il poco emotivo Sherlock Holmes, le cui investigazioni sono condotte con metodo scientifico.
Una sera, guardando il corpo senza vita di Wellington, il cane della vicina di casa, che qualcuno ha trafitto con un forcone, Christopher si ripromette di scoprire l’autore del crimine applicando il metodo deduttivo di Holmes. Benché il padre gli abbia ordinato di non immischiarsi nelle faccende altrui, comincia a raccogliere indizi che annota puntualmente in un grosso quaderno. Nel corso dell’indagine scopre che sua madre non è morta di infarto, come gli ha fatto credere il padre, ma che vive a Londra col marito della vicina di casa, la signora Shears. Quando il conflitto col padre (che confessa di aver ucciso Wellington) si fa temibilmente aspro, Christopher parte per Londra in cerca della madre, di cui conosce l’indirizzo dopo aver trovato le numerose lettere che lei gli ha inviato e il padre ha nascosto in un cassetto. Mi fermo qui col riassunto della trama.
Nel romanzo di Mark Haddon The Curious Incident of the Dog in the Night-Time (pubblicato con straordinario successo nel 2003 e tradotto in italiano col titolo Lo strano caso del cane ucciso a mezzanotte) la voce narrante è quella del protagonista: Christopher Boone. Nella premiatissima riscrittura teatrale di Stephens, la storia è narrata per la più parte in forma drammatica (viene cioè oggettivata) e in minor parte attraverso la lettura, affidata a Siobhan, del manoscritto in prima persona di Christopher.
Abilmente costruita, la commedia è divisa in due atti: il primo è dedicato alla detection e a tratteggiare la figura del singolare investigatore attraverso i suoi rapporti col padre, l’insegnante di sostegno e i vicini di casa; il secondo racconta il suo viaggio a Londra, il suo vagare per la città, il ricongiungimento con la madre, lo scontro col signor Shears, il ritorno a Swindon, il brillante superamento dell’esame di matematica, la dichiarazione finale di voler diventare uno scienziato: insomma le tappe dell’acquisizione di una maggiore autonomia. Il racconto «giallo» diventa un racconto di formazione.
Diventa o aspira a diventare? Francamente, non mi sembra che i personaggi della commedia abbiano un particolare spessore. E ciò che piace dello spettacolo firmato da Ferdinando Bruni e Elio De Capitani non è lo scavo psicologico. Ciò che piace è la scena tutta bianca di Andrea Taddei, dove alcuni elementi modulari di piccola mole vengono variamente assemblati dagli attori, e su tre schermi simili alle pagine di un grande quaderno scorrono delle immagini – disegnate con tratti grigi e neri da Ferdinando Bruni e animate da Francesco Frongia – relative ai luoghi in cui è ambientata la storia e agli interessi fortemente focalizzati di Christopher.
Piace la musica di Teho Teardo, che accompagnandosi alle immagini arricchisce la temperie emotiva delle situazioni. Piace il ritmo serrato dell’azione (i movimenti scenici sono di Riccardo Olivier e Chiara Ameglio), che rallenta solo nelle poche scene di tono realistico-patetico. Piace l’affiatamento e la vivacità – a volte da cartoon – dei nove attori che interloquiscono col protagonista e che per ragioni di spazio non mi è possibile elencare.
Piace Daniele Fedeli, che senza cedere alla tentazione della mimesi naturalistica di un caso clinico disegna un’immagine che rimane impressa del giovanissimo Christopher, coi suoi movimenti stereotipati e ripetitivi, la sua goffaggine, le sue posture atipiche, le sue difficoltà relazionali e la sua solitudine: un «disabile», un «inadatto», come quei bambini autistici che il pediatra austriaco Hans Asperger – stando ai risultati delle recenti ricerche di Herwig Czech e di Edith Sheffer – studiò e in parte fece trasferire in una clinica viennese di pedagogia curativa, dove durante il terzo Reich veniva praticata l’eutanasia eugenetica.