Dove e quando
Iphigénie en Tauride, Zurigo, Opernhaus. Fino al 28 febbraio 2020. opernhaus.ch


Cecilia Bartoli diventa Ifigenia

All’Opernhaus di Zurigo fino alla fine di febbraio
/ 10.02.2020
di Marinella Polli

Iphigénie en Tauride, la tragédie lyrique in quattro atti di Christoph Willibald Gluck aveva avuto un esito trionfale al suo varo a Parigi nel 1779, e fu replicata per centocinquanta volte in tre anni, rimanendo in repertorio quasi sino a fine Ottocento. È stato un trionfo anche per la nuova produzione zurighese dell’opera gluckiana, decretato dai convinti applausi tributati dal pubblico premieristico soprattutto a Cecilia Bartoli.

L’argomento del libretto di Nicolas-François Guillard è tratto da Euripide, seppur elaborato attraverso opere più moderne, in particolare il dramma in prosa Iphigénie en Tauride del 1757 di Guimond de La Touche. Per i momenti fra i più lirici e toccanti del teatro di Gluck, il libretto può considerarsi il migliore da lui messo in musica. Questo suo ultimo lavoro per le scene è l’opera in cui meglio sono trasposte le teorie della riforma operistica di Gluck, rappresentando, visti i non pochi prestiti da sue opere precedenti, un sunto delle sue idee artistiche. Ma è nella configurazione musicale/melodica di Ifigenia che Gluck raggiunge l’apice: la giovane entra subito in scena come sacerdotessa di Diana, con il compito di assistere ai sacrifici umani in uso in Tauride.

I pregressi erano già stati trattati dal compositore in Iphigénie en Aulide. Una figura, quella di Ifigenia, irrazionalmente sopraffatta dagli accadimenti, e che regala fin dall’inizio attimi elegiaci e tenebrosi, drammatici e febbrili. La produzione è certo da annoverare fra le migliori degli ultimi tempi, in specie per la prestazione dell’Orchestra La Scintilla (con strumenti storici) diretta dal maestro milanese Gianluca Capuano, preciso e trascinante.

E per Cecilia Bartoli, sempre in grado di adattare la sua mirabile voce differenziata alle esigenze del personaggio: una Ifigenia disperata e consapevole della maledizione che pesa sulla sua famiglia, e quasi persa nella fatalità degli eventi quando supplica Diana perché le conceda la morte nel I Atto, più convulsa in altri momenti. Bravi anche Stéphane Degout nei panni di Oreste, notevole nel II Atto con «La calme rentre dans mon coeur», e Frédéric Antoun in quelli di Pylade, un timbro caldo per un personaggio permeato di sentimenti d’affetto e amicizia per Oreste. Ottimo Jean-François Lapointe nel ruolo di Thoas, re degli Sciti in Tauride, ora duro, ora in preda ai più tetri presentimenti come nell’aria del I Atto «De noirs pressentiments mon âme intimidée». Lodevole anche il Chor der Oper Zürich diretto da Janko Kastelic.

Oltre che sul confitto famigliare e su quello fra famiglia e società, la raffinata regia statica di Homoki propone una lettura incentrata sulla protagonista. Un vero coup de théâtre, inoltre, è quello di confondere Thoas con l’Agamennone del sogno di Ifigenia, e Clitemnestra con la dea (ex machina) Diana. Eleganti le scene di Michael Levine su cupi toni di nero e blu.