Castrillo, un percorso di quarant’anni

La coerenza e la componente etica del Teatro delle Radici di Cristina Castrillo
/ 02.11.2020
di Giorgio Thoeni

La storia del teatro indipendente della nostra regione può vantare pochi esempi di coerenza, caparbietà, lucidità, cultura e concretezza. Uno di questi, se non proprio l’unico oramai, è rappresentato da Cristina Castrillo. Autrice, pedagoga, attrice e regista, l’artista argentina festeggia il quarantesimo del Teatro delle Radici che ha costruito sull’arco di oltre mezzo secolo complessivo di carriera. Per segnare l’avvenimento mette in scena re-cordari, uno spettacolo realizzato con 10 dei più fedeli e longevi attori della sua compagnia con debutto allo Studio Foce di Lugano il 4 novembre (repliche dal 5 al 10). E la sala potrà contenere il numero di spettatori concesso dalle nuove disposizioni.

Il lavoro è stato provato fra mille difficoltà, senza dimenticare le dolorose battute d’arresto che hanno segnato e compromesso l’attività degli ultimi mesi. È stato allestito facendo l’impossibile per garantire le complesse norme igieniche con l’incubo di dover chiudere di colpo baracca e burattini (ci si conceda il brutale accostamento). re-cordari (passare ancora dal cuore) è un’elaborazione sul vissuto e sul percorso individuale di ogni attore attraverso sogni, viaggi, esperienze collettive, mettendo anche mano a testi, oggetti e costumi conservati nel vasto archivio del Teatro Radici.

Ma dopo 40 anni prevale di più la nostalgia o la memoria?
Sono profondamente legate – ci risponde Cristina Castrillo – la memoria è nostalgia e viceversa. Io sono una nostalgica ma non l’ho mai vissuta come un peso o una mancanza, ma come qualcosa di molto vivo, di molto presente, come una ricchezza. Però posso avere anche la nostalgia per un futuro o di un altrove che so che non sarà come vorrei, che non c’è o che è difficile da costruire. Perché il mondo non va in quella direzione.

In questi anni c’è stato uno sviluppo passionale nel lavoro teatrale rispetto agli inizi?
Ho sempre seguito un filo. Mi dispiace usare la parola coerenza ma l’ho sempre seguita in relazione a una serie di princìpi che non si sposteranno mai dalla mia ottica. Posso percepire senz’altro alcuni aspetti evolutivi a livello metodologico a partire da Sul cuore della terra (spettacolo cult del 1988, NdR). Da allora c’è stato un processo di approfondimento e di azzardo sugli strumenti espressivi da utilizzare e sulle possibilità di linguaggio che sono sempre stati una costante. È sempre stato importante stabilire una direzione, capire che cosa fare con il materiale umano, con l’attore. Che tipo di teatro vuole fare? Che cosa vuole dire? Che relazione vuole stabilire con le persone con cui lavora? Sono ambiti tra il filosofico e l’ideologico che mi arricchiscono e che ho curato nella ricerca di altri modi di essere rispetto a quelli imposti dalla società, dalla famiglia, dalla costruzione di una personalità. Una ricerca, insomma, fra l’aspetto metodologico e quello umano. Ed è quello che più mi interessa di tutta questa storia.

In occasione del Premio Svizzero del Teatro (2014), fra le motivazioni veniva sottolineato il contributo allo sviluppo di un linguaggio teatrale dall’orientamento etico. Il Teatro delle Radici ha lasciato una traccia in tal senso?
Non so se l’abbiamo lasciata. So che la parola «etica» esiste, con tutti gli errori che abbiamo potuto fare, io compresa. Non è un pensiero da difendere, ma qualcosa che ognuno si porta appresso nel comportamento, un modo di essere che credo di aver difeso. Con il nostro lavoro accade qualcosa che difficilmente ho visto in un altro gruppo teatrale. Questo non vuole essere un giudizio di valore, eppure nel nostro modo di essere c’è sempre stato un diverso modo di ascoltare, di avvicinarsi e di prestare attenzione agli altri.

Oltre a re-cordari, per sottolineare i suoi 40 anni, il Teatro delle Radici ripropone tre spettacoli del suo repertorio: Petali (13.11) e Transumanze (14.11) al Teatro Foce mentre con Graffio su bianco (15.11) la compagnia torna nella sua storica sala.
È un tragitto creativo. Sono pezzi della nostra storia che volevamo rivedere e che, avendo un organico, è stato possibile rimettere in scena e mantenere in vita… ma che lavoro!