Melancolia, l’ultimo libro di Mircea Cărtărescu pubblicato da La nave di Teseo è uscito in lingua italiana con la stupenda traduzione di Bruno Mazzoni. Un titolo che svetta tra le numerose uscite editoriali degli ultimi mesi.
La potenza immaginifica, la coerenza stilistica nonostante la vastità semantica, l’acume evidente e la qualità dei sentimenti espressi ne fanno uno dei più grandi scrittori viventi. Leggendolo troverà soddisfazione chi cerca autonomia e personalità nelle opere letterarie. È uno scrittore del mito e in questo sta la sua vertigine. Non fa belle o brutte copie. Ci dona l’inedito autentico delle espressioni umane originarie, arcaiche, e ricorda alcune caratteristiche non negoziabili del mito, come il principio verso cui dimostra una fede incrollabile (che si traduce in tenuta per tutto il testo), della necessità di salvare o condannare. Qualcosa a cui non siamo abituati.
E il mito che ha creato è il più alto fra tutti, quello dell’uccisione dell’ego. La lotta col Guardiano, nel primo capitolo, è degna del Minotauro di Dürrenmatt per esattezza di rivelazione. Del mito rispetta il fatto – incubo per ogni antropologo che ne riconoscerebbe tuttavia il fondamento per quanto attiene la storia dell’uomo primitivo – che unità di pensiero e unità di osservazione, come le chiama Viktor Turner, coincidono: l’esperienza ci autorizza a pensare di aver trovato una verità, un modello mentale. Il mito è allora il mondo antropologico perfetto, dove ogni esperienza è così ottimizzata da restituire con la sua simbologia un significato sopra tutti, riallacciando col lettore un dialogo possibile sull’evidenza come non se ne ascoltavano da tempo, una lezione perfetta di cognizione emotiva. Nel mito, un antropologo vedrebbe applicate e verificate tutte le osservazioni della sua scienza, e al culmine dell’orgasmo morirebbe, assorbito dal paesaggio. Il paesaggio, nel mito, coincide col pensiero di chi osserva. Se Dürrenmatt ha fissato per sempre la natura umana a quella dell’animale destinato alla sofferenza che sta nel fare i conti con l’illusione delle percezioni come specchi che riconducono sempre all’Io, Cărtărescu uccide quell’Io per consunzione, per sfregamento, per lotta corporea e concreta con la propria interiorità, una lotta che il personaggio ingaggia tra le sue due metà speculari fino a quando quella razionale, portata qui allo sfinimento, accetta che nessuna strategia ci mette al riparo dai nostri limiti e dalla nostra condizione di esseri deformi nelle intenzioni e sdoppiati nella coscienza, e tanto ci dimeniamo ottusamente che la comprensione, quando arriva, è trasformazione della lotta con la vita in danza, questa sì capace di scardinare il corpo e i suoi limiti ancestrali.
Nell’istante della resa all’idea di non poter combattere il Guardiano, si assiste a una divisione perfetta del divino dall’umano, del sempiterno dalla miseria della storia, ma questa separazione è tanto marcata quanto più gli elementi dell’uomo si mescolano alla geometria segreta del movimento, alle leggi di natura, alle idee del Legislatore. Davvero l’uno non esiste senza l’altro. Non necessariamente è il dio cristiano. In questo nuovo mito, il dio è tutti gli dei, l’uomo è tutti gli uomini. E così deve essere per essere mito. È chiara l’abilità dell’autore nell’utilizzare tutti i registri che stati mentali tanto diversi si portano dietro, solitamente avviene separando l’antico dal moderno, lo spirito dalla materia, l’esperienza dell’uomo adulto da quella del fanciullo. Qui no. Nella casa in cui per anni vive un bambino da solo, dove la morte della mamma è «aver dimenticato di tornare a casa», così realisticamente costruito che viva da solo, oltre ogni senso, e però magicamente credibile, l’autore ha persino il cuore di fare metaletteratura, cioè dirci quale operazione sta facendo mentre la fa: sui ripiani delle librerie ci sono quei ninnoli di ceramica vuoti all’interno, che sotto hanno un buco in cui puoi infilare un dito «uguali al fuori, ma al rovescio. Solo che l’interno era più ruvido, senza lo smalto».
Il resto del libro è un mito rovesciato, cioè ancora mito, reso più ruvido dalla vita reale, dalla biografia che è ingombro ma che ci tocca vivere rincuorati dal fatto che la nostra vita non è veramente nostra. Una verità universale che stavolta va rintracciata tra le righe del tempo presente. Questo è il compito vero dello scrittore di oggi, attraverso il vergare le pagine, nascondere e proteggere ciò che sopravvive al significato: l’inattualità di ciò che è vero da sempre, che persiste nell’umano da prima che ci fosse dato di prendere parte al gioco della vita e quindi, in fondo, la conduce. Tutto viene immerso nel pensiero tragico, pare una condanna e invece è purificazione e anche lo sguardo del bambino si rivela: perché possiamo riconoscerlo, dobbiamo prima attendere che il sentimento che lo anima attraversi tutti i corridoi e l’aria buia della nostra coscienza e lasciarlo poi precipitare nell’abisso del nostro bisogno di consolazione.